Giovedì scorso, 26 luglio, ho assistito a un nuovo
episodio della fase live della PFM.
Location fantastica,
Arena del Mare - Porto Antico di Genova
- un tradizionale punto di riferimento per i concerti estivi di livello.
Prima dei contenuti,
vorrei mettere in risalto un aspetto che mi pare fondamentale di questi tempi:
la risposta del pubblico. Nello stesso luogo ho visto transitare mostri sacri
che hanno segnato profondamente la storia del rock, da Alvin Lee a Eric Burton,
dai Colosseum a Warren Haynes, ma mai avevo visto un sold out, e
in questo senso credo che il filmato a seguire, se pur di scarsa qualità, possa essere una buona
testimonianza.
PFM omaggia Fabrizio De Andrè, fatto di per sé usuale, ma
proporre il progetto a Genova, città di
Fabrizio, ha evidentemente enorme valenza, perché i suoni si miscelano ai
ricordi e agli affetti, e ciò che la band presenta è esattamente la propria
immagine, antica, proiettata nel presente. Manca purtroppo un elemento cardine,
Fabrizio, ma a ciò non si può porre rimedio e quindi ben vengano le forme -
originali - di rivisitazione. La musica saprà farlo rivivere.
Nei commenti del giorno dopo
chiedevo ad un amico cosa pensasse del concerto e dell’enorme coinvolgimento
verificatosi sul campo e lui rispondeva: “… difficile da spiegare… la gente cantava
le canzoni di De Andrè e si muoveva per i brani della PFM…”, giudizio
sintetico che ben esprime il senso della partecipazione.
In realtà lo spazio “solo PFM” arriva alla fine, con un
trittico esplosivo che racchiude “La
Carozza di Hans”, “Impressioni di
Settembre” e “ Celebration”,
quest’ultima chiamata a gran voce, sin dalla prime battute, dal pubblico
rimasto all’esterno, che da quella posizione ha assistito all’intero concerto
accontentandosi dell’audio. Come d’abitudine “Celebration” ha evidenziato le capacità di comunicatore e animatore
di Franz Di Cioccio, un musicista
capace di infiammare il pubblico - non solo con il suo strumento - arrivando a quella che io giudico l’essenza
della performance live, quel momento in cui pubblico e artisti diventano una
cosa sola, in un mutuo scambio che amplifica la qualità di ciò che va in scena
in quel momento.
Ma prima dell’epilogo
“progressivo” tutto lo spazio è stato dedicato al Fabrizio dicittà e a
brani tratti dai suoi primi album: “La
guerra di Piero”, Bocca di Rosa”,
“Andrea”, “Il testamento di Tito”, “ Volta
la Carta”, “Universo”, “L’infanzia di
Maria”, sono alcuni dei brani presentati nel corso della serata.
La formazione è quella tipica (Franz
Di Cioccio, Patrick Djivas, Franco
Mussida,Lucio Fabbri) con Alessandro Scaglione alle tastiere e
l’impiego quasi a tempo pieno di Roberto
Gualdi, per permettere a Di Cioccio massima libertà nel cantato, ceduto in
alcune occasioni a Mussida.
Come commentare un concerto che finisce in apoteosi!?
Le qualità tecniche si mischiano
ai contenuti, le parole e i messaggi trovano nuove evidenziazioni per merito di
arrangiamenti consolidati che valorizzano le idee di un uomo ormai divenuto mito.
Tutti appaiono in stato di
grazia, probabilmente toccati nell’intimo dalla situazione, e ciò che alla fine
emergerà è quella strana sensazione a cui facevo riferimento all’inizio, quella
voglia di cantare e di ballare che appare come una liberazione, una voglia di
esplosione che anticipa i propositi di Di Cioccio, che nella fase finale
esorterà il pubblico ad urlare per … eliminare le scorie del quotidiano, per
scacciare le cose negative da cui siamo circondati, oggi più che mai, e che un
concerto “adeguato” può contribuire a nascondere, almeno per due ore,
centoventi minuti di mente libera e di gioia musicale. E quell’urlo che Franz
chiama, mi pare, “disobbedienza” o “ confusione “ musicale, porta a qualche
riflessione che ci accompagna nel lasciare l’Arena del Mare.
Mentre tutto questo prendeva
vita sul palco, qualche nave sfiorava il concerto e andava oltre, come a
controllare la situazione: qualche turista, qualche lavoratore e, chissà,
magari l’anima di un antico uomo genovese che da quelle parti era già passato …
musica e sogni sono un connubio perfetto!
Ho incontrato
casualmente - virtualmente - Claudio Sottocornola nel momento giusto,
nel periodo in cui mi sto interrogando, in buona compagnia, su cosa si possa
fare per diffondere la cultura musicale, su come si possa entrare nel mondo
della scuola per una buona semina, su quali siano i mezzi corretti per
“costringere” i nostri giovani a superare la barriera della superficialità per
lasciarsi trasportare in un mondo che non conoscono, che non dovrà
obbligatoriamente affascinarli, ma che potrebbe riservare loro delle sorprese
positive.
Nell’intervista a
seguire, le prime riflessioni di Claudio riportano ad un problema di cui
possiamo identificare l’inizio, ma non certo prevedere la fine, e probabilmente
non esiste una sola verità, ma variegate sfaccettature che permettono di
assumere posizioni differenti a seconda del momento. Mi riferisco a
quell’atteggiamento particolare che porta a giudicare e a decidere quale sia la
musica degna di essere chiamata con tal nome, e a denigrare/deridere/ non
considerare ciò che è ritenuto facile, commerciale, di presa immediata.
Io faccio parte del
gruppo degli intransigenti… moderati, anche se i ragionamenti come quelli di
Sottocornola mi fanno tirare il freno a mano, per una sosta prolungata nel
campo del dubbio: esiste la musica di seria A e quella di serie B?
Probabilmente non è
molto importante rispondere, in fondo non si potrebbe vivere senza la musica da
cui siamo circondati, e se ad assolvere il compito di arricchimento quotidiano
è un brano da tre minuti piuttosto che una suite di stampo classico, beh,
entrambi troveranno una giustificazione esistenziale e presenteranno la giusta
dignità.
Claudio
Sottocornola, intellettuale, filosofo e studioso della materia, porta in giro
le sue idee, la sua musica e il contesto in cui è nata e ha vissuto, e in
questo suo viaggio sul territorio l’elemento didattico si sposa con quello ludico e favorisce l’interattività.
Ogni occasione è
buona… una scuola, un circolo culturale, l’Università della 3° età, in una
dimensione personale che miscela la performance canora alle parole. Questo è la
traduzione pratica del “fare cultura musicale”, ed è un esempio da cui d’ora in
poi trarrò spunto.
Ma tanto lavoro sul
territorio ha trovato uno sbocco divulgativo importante, la rete, ed è nato il
progetto Working Class, una sorta di collage video dei sui eventi, visibile dal suo sito
ufficiale, diviso in cinque sezioni proposte con cadenza mensile.
Il quarto appuntamento, l’ultimo uscito, è
riservato ai Cantautori.
A fine post sono
riportati tutti i link utili per approfondire, e il video allegato chiarirà
meglio i concetti appena espressi.
Imperdibile per chi è
dotato di curiosità musicale e un po’ di onestà intellettuale.
L’INTERVISTA
Leggendo la tua storia,
la prima cosa a cui ho pensato è relativa al mio cambiamento nel corso degli
anni, partendo dall’adolescenza, quando certi nomi del mondo della musica
leggera risultavano innominabili, mentre ora sono ben disposto verso qualsiasi
prodotto “gradevole”. Esiste secondo te uno spartiacque tra buona musica e musica con … minor dignità?
Molto
spesso si tratta di una questione di affinità, che possono cambiare nel corso
degli anni e allargarsi ad includere esperienze sempre più vaste ed eterogenee,
al contrario di quanto accade nell’adolescenza, dove si è sollecitati ad
accettare esclusivamente ciò che conferma e rafforza la propria immagine
identitaria. Nella mia attività giornalistica ho incontrato due personaggi che
mi hanno illuminato su questo problema, entrambi identificabili col periodo
degli anni ’70. Georges Moustaki mi sottolineò nel corso di un’intervista che
ogni canzone, anche quella apparentemente più stupida, è frutto di un qualche
processo creativo che va rispettato e valorizzato, mentre Nicola di Bari, che
incontrai a Canale 5, quando la sua carriera si era già in gran parte
trasferita all’estero, insistette molto sul riconoscimento che merita qualsiasi
interprete che ha il coraggio di esibirsi su un palco, e quindi di affrontare
anche le critiche. Soprattutto, sono convinto che la qualità non vada mai
identificata con un genere, ma che all’interno dei diversi generi si può
individuare una gerarchia di intensità e valore. Attualmente comunque io
ascolto solo ciò che mi dà stimoli nuovi o, in alternativa, ciò che mi
corrobora nella mia identità e memoria profonde.
Che tipo di
soddisfazione ricavi dal contatto con il pubblico? Riesci a realizzare anche
una certa interattività?
La
comunicazione è sempre bidirezionale e interattiva. Lo vedo anche nelle mie
lezioni di filosofia, ove mi accorgo che il confronto con gli studenti, che
sollecitano con domande, obiezioni, riflessioni personali, mi obbliga a
chiarire, ridefinire, riformulare il mio
pensiero in rapporto con l’interlocutore, allargandone così lo spettro di
efficacia ed inclusione dei diversi punti di vista. Nelle lezioni-concerto, per
esempio, il contatto col pubblico, che interagisce sia con la sua
reattività fisica ed emotiva che con
domande e osservazioni, mi ha aiutato a sdrammatizzare maggiormente il momento
esecutivo, acquisendo un po’ più di “leggerezza” rispetto ai tempi in cui
conducevo le mie ricerche in studio e l’interpretazione, come si evince dalla
trilogia “L’appuntamento”, pubblicata qualche anno fa, è molto più drammatica
ed esistenzialistica, e nella sua versione video anche un po’ “claustrofobica”,
a differenza di quanto accade nei cinque live di “Working Class”, attualmente
in Rete.
Ho delle esperienze
negative legate al rapporto scuola/musica, laddove la materia musicale è intesa
solo in senso tradizionale, o esiste un indirizzo strumentale specifico, mentre
sono dell’idea che, ad esempio, un album potrebbe essere oggetto delle
riflessioni e del lavoro di gruppo da svolgere nelle ore di letteratura. Qual è
la tua esperienza specifica?
Condivido
le tue valutazioni. A scuola la musica è scarsamente insegnata e, quando lo è,
viene concepita come apprendistato tecnico (il solito corso di clarinetto o di
chitarra…) o, al più, come Storia istituzionale (la musica classica!). Io
stesso ho dovuto affrontare qualche scetticismo e ipercriticità nel proporre le
mie lezioni-concerto, perché relative alla musica pop, rock e d’autore
contemporanea, e basate sulla riesecuzione e interpretazione vocale dei brani
stessi ( è semmai più tollerata la semplice storicizzazione). I problemi coinvolti
sono di due tipi. Da un lato c’è una visione museale del sapere, per cui conta
solo ciò che è già “passato in giudicato” e può quindi essere conservato e
trasmesso, con una forte penalizzazione del contemporaneo. Dall’altro, ancor
più grave, c’è una didattica con finalità esclusivamente intellettualistiche,
che non si preoccupa di educare il “cuore”, la sensibilità – anche estetica –
degli studenti, e quindi non li coinvolge in esperienze di ascolto e
percezione, emotivamente forti e partecipative.
Vivo e lavoro (per
passione) nel web, e ho sperimentato la potenza del mezzo divulgativo e la
facilità dell’elemento organizzativo. Quanto è importante per te utilizzare
internet, e quali sono gli aspetti negativi per te più evidenti?
Credo che
ad ogni aumento di potenza corrisponda un aumento di opportunità ma anche di
pericoli, come vediamo dagli stessi sviluppi della tecnologia. Internet
rappresenta quindi una rivoluzione paragonabile a quella della Stampa di
Gutenberg, che conduce all’immane guadagno di una divulgazione scientifica,
artistica e culturale in genere aperta a tutti, in cui io stesso mi muovo e a
cui attingo, come si vede dalla scelta di pubblicare “Working Class” in Rete.
Ma presenta anche il limite di dare amplificazione a forme di comunicazione talvolta
banali, incontrollabili e deresponsabilizzanti. Spero quindi che il tempo
porterà ad un’autoregolamentazione etica sempre più efficace, limitando il
rischio che l’aumento della comunicazione in estensione porti ad un suo
radicale impoverimento, rischio peraltro già strutturale alla velocità del
mezzo, che comporta una evidente contrazione dei passaggi linguistici e
argomentativi.
La poesia, le parole,
le immagini, la musica... elementi essenziali che ci accompagnano nel nostro
percorso di vita. Eppure della cultura in senso lato si sente parlare - molto
- solo in determinati momenti, quando fa
più comodo. E’ una visione troppo pessimistica la mia?
Forse sì,
perché la “cultura” nel senso più profondo, e cioè antropologico, è
coessenziale all’umanità, che non ne potrà, né mai ha potuto, farne a meno. Mi
spiego meglio: se noi ipotizzassimo, per un attimo, la scomparsa di tutti i
mezzi espressivi attualmente a disposizione, e quindi immagini, suoni, colori,
gesti e parole, resterebbe che un essere umano in tali condizioni ancora
sentirebbe, penserebbe, gioirebbe o si rattristerebbe, e quindi ancora sarebbe
un soggetto “culturale” che, invece di suoni, colori o parole…, forse
genererebbe semplici vibrazioni… Insomma, come sottolineano gli anglosassoni,
la cultura è il modo in cui viviamo, mangiamo, preghiamo, ci divertiamo,
pensiamo la nostra condizione… E’ però vero che la qualità culturale del
presente è fortemente influenzata dalla visione che pone al vertice dei valori
quelli economici, e quindi risulta impoverita di molteplici altri aspetti (per
esempio ludici ed espressivi) essenziali alla nostra vita.
Come nasce il progetto
“Working Class”?
Come per
altre esperienze, mi piace cristallizzarle in un’”opera”, quando giungono ad un
certo compimento, utilizzando il materiale raccolto durante la loro
realizzazione. Così si può dire che il progetto “Working Class” abbia
accompagnato il mio tour di lezioni-concerto dal 2004 ad oggi. Nel corso di
questi live sul territorio infatti, a contatto col pubblico più vario delle
scuole, dei teatri, di Centri Culturali e Terza Università, ho sempre raccolto
la documentazione che amici, colleghi, fonici, video operatori (uno speciale
ringraziamento va a mia sorella Augusta che ha seguito e ripreso tutto il tour),
andavano realizzando, e alla fine ne ho ricavato un archivio cospicuo, da cui
ho selezionato gli estratti più significativi in relazione ai diversi temi
trattati. Alla fine si tratta di una ottantina di brani simbolo della canzone
italiana, reinterpretati a modo mio e, soprattutto, storicizzati e
contestualizzati a tracciare una storia sociale e del costume del Novecento in
Italia, con particolare attenzione al periodo che va dagli anni ’50 ad oggi. La
selezione e poi il montaggio delle immagini sono stati faticosissimi, perché le
riprese effettuate sono molto “on the road”, girate in presa diretta e a volte
casuali, ma è proprio questo che differenzia e caratterizza la mia proposta
rispetto al circuito del puro consumo musicale, il suo proporsi come ricerca e
momento di educazione anche estetica, testimoniando che musica non è solo
intrattenimento ma anche apprendimento, crescita, formazione. “Working Class”
documenta così l’interpretazione, l’interazione col pubblico, il discorso di
storicizzazione a partire dalla canzone. Il tutto è ora disponibile sui siti www.claudiosottocornola-claude.com e www.cld-claudeproductions.com
, nonché sul canale CLDclaudeproductions di Youtube , e lo sarà successivamente
anche in versione cofanetto dvd.
Attraverso i tuoi
lavori ripercorri la storia della musica e della gente attraverso un buon
numero di lustri. Esiste un fil rouge, una linea guida musicale che unisce
tutte le epoche che descrivi?
La
relazione fra tempo storico ed espressione artistica è una costante che io
tendo a mostrare nelle mie lezioni-concerto a tema (dai teen-agers di ieri e di
oggi all’immagine della donna nella canzone,
dagli anni ’60 ai cantautori), ove sono particolarmente attento agli
episodi musicali innovativi e di rottura (le influenze americane, il beat, la
canzone d’autore, le interpreti…) per mostrare, come voleva Heidegger, che la
grande arte, di cui la musica è parte, non solo è prodotta, ma produce Storia…
Questo è il fil rouge che mi spinge a guardare con ottimismo al divenire
storico… ma soprattutto, alla nostra capacità di influenzarlo e orientarlo nei
micro cambiamenti e nelle micro relazioni quotidiane, come attraverso la creazione
artistica.
Ho posto recentemente
una domanda, apparentemente retorica, ad
un famoso cantautore, relativa alla musica senza liriche, avendo letto di un
suo pianto adolescenziale per una trama di Mozart. E non posso dimenticare
dell’amore profondo per la musica d’oltremanica, quando non capivamo una parola
della lingua inglese. Qual è il tuo pensiero sul rapporto musica /testi?
Nel mio
ascolto e nella mia percezione sono olistico: sono quindi colpito
dall’atmosfera, dal gesto scenico, dalla maschera teatrale e, non ultimo, dalla
voce, che tuttavia avverto come suono, timbro, risonanza d’essere, e amo quindi
ascoltare abbastanza al livello della musica e non sovraesposta, come piace a
molti tecnici del suono italiani. Credo però che anche la comprensione delle
parole (il cui contenuto evoca concetti, sentimenti e immagini) aiuti a
realizzare l’atmosfera in cui ha luogo la
rivelazione… artistica.
Anche a me capita di
piangere - e ora non ho più nessun
pudore nel farlo - per una particolare musica che mi colpisce nell’intimo. Se
dovessi stilare una scala di valori che comprendesse tutto ciò che è in grado
di smuovere le anime, che ruolo attribuiresti alla melodia e alla possibile
poesia annessa? C’è qualcosa di mistico e metafisico nel rapporto che ognuno di
noi ha con il mondo dei suoni?
Da un
punto di vista istituzionale penso, con Hegel, che arte, religione e filosofia
siano gli ambiti di rivelazione e manifestazione dello Spirito al suo più alto
livello. Della prima fa parte la musica, che io colgo soprattutto nella sua
dimensione scenica, interpretativa, estetica e vocale, e quindi diventa
sinergica a tutte le altre arti. Il ruolo che le attribuisco è quindi
altissimo, incommensurabile, sublime, con degli esiti di tipo
mistico-spirituale. Immodestamente, è qualcosa che io vado cercando quando
canto – una rivelazione – che spero sempre possa a flash e bagliori arrivare a
me come al pubblico che partecipa o ascolta a casa. Ma, per lo più, la musica
del nostro tempo è edonisticamente avvitata su una modalità di esecuzione e
proposta banale e massificante, finalizzata alla vendita e al consumo, sempre
più in crisi e pertanto sempre più nevrotica.
Guardiamo un attimo al
futuro. Qual è il progetto a cui ambisci e che non hai ancora avuto il modo di
realizzare?
Mi
piacerebbe girare l’Europa, portando alla ribalta di un pubblico vario e
cosmopolita la Storia della canzone italiana nei suoi brani simbolo e nei suoi
snodi stilistici ed epocali, raccontando al contempo l’evoluzione sociale e del
costume nel nostro Paese, da “Nel blu dipinto di blu” a “Vita spericolata”, da
“Ma l’amore no” a “Meravigliosa creatura”. E poi vorrei finalmente pubblicare
un’antologia delle mie migliori interviste, realizzate soprattutto fra gli anni
’80 e ’90, ai grandi personaggi storici della canzone e dello spettacolo in
Italia, da Gianni Morandi a Rita Pavone, da Enzo Jannacci a Milva, da Carla
Fracci a Nino Manfredi, da Wanda Osiris ad Alberto Lattuada.
Il mio trittico genovese di fine luglio - UT, PFM, BANCO/ORME - è iniziato
mercoledì 25
luglio, con il concerto degli UT.
E così la band locale, una costola/diramazione importante dei
New Trolls ritorna a Genova, in una
location di indubbio fascino, quell’Arena
del Mare che contribuisce a creare immagini originali legati alla band. Non
sono gli elementi nostalgici quelli su cui soffermarsi, ma la mia iniziale
permanenza nel backstage mi ha permesso di captare una certa emozione, almeno
in chi rappresenta la continuità tra storia e presente, vale a dire Gianni Belleno
e Maurizio Salvi.
In questi casi, l’atmosfera carica di significati oltrepassa l’elemento
musicale, e questo feeling viene trasmesso a chiunque si trovi in un piccolo
raggio d’azione, spazio che ha racchiuso, naturalmente, l’attento pubblico.
Poteva andare meglio dal punto di vista delle presenze, ma in
questi momenti di vita dura per tutti bisogna ragionare come dei buoni e
ottimisti seminatori, pronti a cogliere i frutti della fatica quando si
presenterà l’occasione.
Maurizio Salvi mi raccontava prima del concerto di come sia problematica l’organizzazione di una band e con quale fatica si riescano a chiudere i
tanti cerchi che di volta in volta si aprono, ma la musica prima di essere un
lavoro - quando lo è - è una passione
che ti accompagna per una vita e anche i momenti difficili vengono superati con
il suo aiuto.
La band si presenta con una novità - almeno per me - e cioè
la presenza di Alessandro
Del Vecchio alle tastiere e cori/voce, in sostituzione di Andrea
Perrozzi.
Non conoscevo Alessandro, musicista dal notevole curriculum
nonostante la giovane età, e l’inserimento mi è parso un successo, perché oltre
al buon lavoro di completamento delle parti tastieristiche, ha sfoggiato una
gran voce riconducibile agli stilemi dell’hard rock, e capace di raggiungere
con apparente facilità note normalmente difficili da “toccare”.
Il repertorio è quello conosciuto, contenuto nel disco
registrato a marzo, che pesca nel profondo prog di inizio anni ’70, sintetizzato
nell’album “UT”.
Ecco il mio recente giudizio relativo all’album live,
riproposto, nella sostanza, in questa occasione:
Nelle oltre due ore di
musica c’è spazio per il ricordo, il virtuosismo, l’improvvisazione e
l’interazione, con sottolineature da parte dell’audience, in bilico tra
concentrazione e voglia di “muoversi”.
Il mix che gli UT propongono è originale, cosa non ottenibile
con la sola qualità dei musicisti, e il ricorrere a forze nuove, necessità
quasi fisiologica per tutte le band storiche, è una buona spinta alla
rivisitazione di ciò che è stato, con uno sguardo verso quello che verrà.
La commistione dell’ elemento classico - il bacaloviano
“Concerto Grosso” - con tracce di rock pesante, e l’utilizzo di
trame vocali corali mi sono sembrati i
temi portanti della serata, e l’impressione di omogeneità è emersa, nonostante
l’inserimento di un nuovo elemento, nonostante alcuni problemi tecnici legati
al funzionamento delle tastiere di Salvi, nonostante non sia cosa semplice
reinterpretare le parti di Nico Di Palo.
A distanza di pochi giorni ho rivisto Fabri Kiareli, ma in veste
differente, non più chitarrista dei Trip, ma bassista, oltre che vocalist.
Anche in questo caso se la cava egregiamente, denotando una sicurezza da palco e
una certa tendenza alla leadership che appaiono come doti naturali.
Trascinatore, istrione, eclettico e campione di comunicatività.
Bella la performance di Claudio Cinquegrana, preciso e misurato nelle parti solistiche, senza mai
dare l’impressione della ricerca dell’estrema visibilità personale, fatto più
volte riscontrato in ambito concertistico, anche se capibile e alcune volte tollerabile.
Il tutto diretto dal “maestro” Maurizio Salvi, che detta i tempi e
conduce per mano il team. Lo avevo seguito direttamente dal palco del
ProgLiguria e rispetto a quell’occasione ho rilevato una maggior voglia di
lasciarsi andare e una discreta tendenza al suonare divertendosi, situazione
che si verifica quando le condizioni ambientali al contorno lo permettono.
Tanto di cappello!
E la quasi necessità di “gioco da palco” emerge nei duetti con
l’altra colonna, Gianni Belleno, un pezzo di storia della musica italiana.
Gianni suona e canta, dando prova di freschezza strumentale ed esibendosi in un
lungo assolo molto apprezzato dal pubblico, che si dimostra attento nel percepire tutto quello
che si nasconde dietro alla tecnica e al virtuosismo, quel cuore pulsante forse
più difficile da far emergere nel caso di un drummer.
Un gran bella serata per una band che, dopo un buon rodaggio,
sta entrando in forma.
Per dovere di cronaca segnalo un ospite di cui non ho captato
il nome. Però… è visibile nel filmato a seguire, testimonianza del bis.
Un piccolo e antico aneddoto personale.
Era il 1992 e mi trovavo in una sperduta città della Corea
Del Sud… un unico Motel e 200000 abitanti.
Nel negozio di dischi della via centrale esisteva una sola
vetrina, piena zeppa di star locali. Ma al centro, in buona evidenza, la
copertina di un vinile … Concerto Grosso.
Se ancora oggi ascoltarlo mette i brividi ci sarà pure un
motivo!?
Cimentarsi con un brano simile mi pare estremamente difficile, per
le seguenti ragioni:
-E’ un brano simbolo di un’epoca e di un movimento, quello
progressivo, ed occorre … “sentirselo
addosso”, non solo dal punto di vista musicale.
-Non è strutturalmente semplice, e il dubbio interpretativo
potrebbe essere legato ad una riproposizione più fedele possibile o … l’innesto
del tocco personale.
-La voce originale è quella inavvicinabile di Greg Lake, e i
paragoni sono sempre in agguato.
-La reinterpretazione della storia da parte di una giovane artista
può portare a giudicare l’azione come velleitaria.
Ecco, per chi non avesse coraggio esistono tutte queste
preoccupazioni e probabilmente molte di più, ma Nora Dei, conscia della propria “forza”e ben consigliata da Antonio Bartoccetti, passa oltre e osa,
mettendo sul piatto una versione toccante che non può lasciare indifferenti.
La parte musicale è indivisibile nel giudizio, perché contribuisce
a mettere in scena un dramma a forti tinte scure, un insieme di concetti che
vale la pena di conoscere nei dettagli, e per svolgere anche un piccolo ruolo
didattico ho inserito a fine post la lirica originale e la sua traduzione, e
rileggendo mi sono reso conto di quanto possa essere attuale un testo di oltre
quarant’anni fa.
La riproposizione di Epitaph da parte di Nora Dei penetra del
profondo e attacca la sensibilità personale, lasciando un senso di vuoto che, d’stinto,
si vorrebbe riempire cercando altrove. Ma è facile ritrovarsi pronti al
riascolto, e poi a ancora, e ancora, sino a che le nostre riflessioni,
probabilmente amare, saranno giunte al termine. Da non perdere.
Artist: Nora Dei
Label: Musik Research
Single: EPITAPH (2012 remake), durata 7’34”
Original: 1969
Writers: Robert Fripp-Ian McDonald-Greg
Lake-Michael Giles
Words: Pete Sinfield
Original publishing: EG Music
Epitaph “2012 remake”: powered & arranged by Rexanthony
Musician: Antonius Rex (electric and acoustic
guitar)
Special thank: Apple computer, Gibson guitars
Worldwide digital distribution by Musik
Research, July 2012
Available on I Tunes, Amazon, eMusic and all digital
stores.
Epitaph
The wall on which the prophets
wrote
Is cracking at the seams.
Upon the instruments of death
The sunlight brightly gleams.
When every man is torn apart
With nightmares and with dreams,
Will no one lay the laurel wreath
As silence drowns the screams.
Between the iron gates of fate,
The seeds of time were sown,
And watered by the deeds of those
Who know and who are known;
Knowledge is a deadly friend
When no one sets the rules.
The fate of all mankind I see
Is in the hands of fools.
Confusion will be my epitaph.
As I crawl a cracked and broken path
If we make it we can all sit back
and laugh.
But I fear tomorrow I'll be crying,
Yes I fear tomorrow I'll be crying.
Epitaffio
Il
muro su cui scrivono i profeti
Si sta rompendo le cuciture
Sotto gli strumenti della morte
La luce del sole splende raggiante
Quando ogni uomo è fatto a pezzi
Con gli incubi e con i sogni
Nessuno toglierà la corona di foglie di lauro?
Mentre il silenzio sommerge le urla
Tra i cancelli di ferro del destino
Venivano seminati i semi del tempo
e annaffiati dalle scritture di coloro
Che conoscono e che sono conosciuti
La conoscenza è un amico mortale
Quando nessuno imposta le regole
Il destino di ogni tipo di uomo che vedo
E' nelle mani degli stupidi
La confusione sarà il mio epitaffio
Mentre striscio per un sentiero crepato e sfasciato
Se ce la facciamo possiamo sederci tutti
E ridere
Ma ho paura che domani starò piangendo
Si, ho paura che domani starò piangendo
Venerdì 20 luglio, in
Piazza Rocca a Loano era di scena la
Marcello
Chiaraluce Band.
Marcello è un musicista dai molteplici
progetti, ed è cosa normale vederlo su di un palco accanto a qualche
personaggio dal nome altisonante e dal valore esagerato, ma i disegni personali
sono quelli che danno maggiori soddisfazioni, che permettono di dare e darsi una
misura, riportando la tecnica alla giusta dimensione e dando evidenza della
creatività e delle doti di leader.
Avevo già visto la band nel periodo natalizio, e a distanza di sei
mesi ho ritrovato gli stessi artisti con un piglio decisamente maturo, una
situazione che si acquisisce col tempo e che porta ad una consapevole e
piacevole sicurezza.
La location è molto suggestiva, e la piazza risulterà gremita per
tutta la durata del concerto.
Difficile stabilire una maggioranza anagrafica perché il pubblico
è sembrato variegato e alla fine, dalla mia postazione centrale, affianco al fonico, l’amico Mazzitelli, ho potuto notare
un turnover continuo che ha tenuto costantemente piene le sedie disponibili.
Quale l’idea della serata? Quale il tema dominante?
Di scena la storia dei Guitar Heroes, attraverso i brani famosi che hanno reso celebri loro e le
band di appartenenza.
Geniale… prendi un tema musicale e prova a sviscerarlo ripercorrendo
un lungo periodo storico… il pubblico capirà e gradirà!
E così è stato.
Per chi non lo avesse mai sentito Marcello Chiaraluce è un chitarrista con i fiocchi, capace di
emergere nelle situazioni più complicate, tra il prog e il rock blues, la fase
acustica e quella classica. Ma gli altri componenti non sono da meno.
Sono sei i musicisti ufficiali: oltre a Marcello ( chitarre e
voce) Serena Torti ( voce), Mauro Mugiati ( tastiere, chitarra e
voce ), Luca Grosso (batteria), Kenny
Valle alla tastiere e Daniele
Piglione al basso. Davide Spalle
(vocalist) mi pare il settimo elemento, anche se presentato come “ospite”.
Ripercorrere una fetta di storia musicale significa anche
attraversare ere e culture diverse, e mi è sembrato significativo il “tenere la
scena” della - anche - modella Serena. Evidenziare la sua bellezza è cosa scontata, ma che nulla
aggiunge all’elemento musicale, mentre mi preme sottolineare i frequenti cambi d’abito che hanno accompagnato la progressione temporale in atto sul palco.
Sono arrivato a concerto iniziato e vedere una giovane donna
ballare e cantare con abiti in voga nell’era hippie, con tanto di pantaloni a zampa
di elefante e fascia sulla fronte, mi ha immediatamente colpito.
E la musica? Quali gli eroi della sei corde?
Vado a memoria e spero di non dimenticare troppo… Eric Clapton, Carlos
Santana, Pete Townshend, Brian May,Mark Knopfler, David Gilmur,
Martin Barre e l’immancabile tributo a Jimi Hendrix.
Ma c’è stato spazio anche per la sezione Prog, con un trittico da favola che ha riportato a Steve Howe, Robert Fripp e Steve Hackett.
In questa occasione qualcuno si alza, ma viene immediatamente
rimpiazzato, e la “storia della chitarra” regala un senso supplementare a questa
notte dei ricordi, diventando quasi elemento didattico da utilizzare per i
tanti giovani presenti, una sorta di The
School of Rock già apprezzata nella proposta video di Jack Black.
Il pubblico apprezza e il gradimento innesca la gioia da palco,
palpabile per chi consoce l’ambiente dei concerti.
C’è anche un discreto spazio per i brani di produzione propria,
tratti dai due album della marcello Chiaraluce Band, ed il brano “Guitar Hero”, tratto dal primo CD, si
inserisce perfettamente nel contesto della proposta.
Bello il gioco di squadra, con l’alternanza delle voci tra i
quattro vocalist, e ottima la resa generale. Le doppie tastiere, la doppia
chitarra e le molteplici voci forniscono al gruppo una vasta gamma di
possibilità espressive, sulla strada di un rock che si ascolta con grande
piacere e che in fase live appare trascinante.
Un bellissima serata di musica in una cittadina, Loano, che ad
ogni angolo presentava un trio musicale, quasi fosse Beale Street.
Le mie riprese video sono state inficiate da un problema allo
zoom, ma resta un discreto audio che ci ricorda chi siano stati gli YES, e
quale valore avesse l’album FRAGILE, rappresentato in questo caso dalla
magnifica ROUNDABOUT. Bella l'esecuzione di casa nostra.
Il 18 luglio di 24 anni fa,
a soli 50 anni, morivaNico, indimenticata cantante, attrice e modella tedesca.
Un pò di tempo fa la ricordai così…
Il post di oggi è
dedicato aNICO.
Chi e’? O meglio, chi
era?
Di
lei ricordavo solo tracce ricavate daCiao 2001, secoli fa, e forse
una copertina dedicata.
Mi
era rimasto nella mente qualcosa che aveva a che fare conuna vita
pericolosa, con
l’eroina, con un’esistenza vissuta sempre al limite, e ricordavo qualche
giudizio del tempo, legato alle sue capacità di plagiare, utilizzando fascino
e bellezza.
Non
avevo di certo collegato la sua figura ad una particolare abilità o genere musicale,
ma nel mio filtro mentale, quello della memoria musicale, il connubioVelvet Underground-Nicoera rimasto intrappolato.
A
distanza di anni l’ho scoperta, e ne sono rimasto affascinato.
Quando riesco, il sabato pomeriggio mi ritaglio
un ora dagli impegni familiari (al sabato sono numerosi), e mi dirigo nel
centro citta’, e
precisamente nelcentro storico, e ancora più precisamente invia Pia, dove a metà
percorso c’e’ una piazzetta molto bella, e dove esiste il mio “triangolo perfetto.”
via Pia... molti anni
fa
Questa
figura geometrica ha, ovviamente, tre vertici, che io “tocco” con sequenza
sempre diversa.
Nello
spazio di pochi metri trovo il negozio di dischi, e di fronte il
mio amico e musicista Franco. Due passi ancora e trovo la libreria.
Qualche
parola con Franco, dopo aver acquistato un DVD, e poi alla ricerca di un libro.
In una
delle mie scorribande nel reparto dedicato alla musica, rimango colpito dal
viso di Nico. Il titolo del libro è “Nico , Bussando alle Porte del Buio”
e l’autore e’ Gabriele Lunati.
La foto
in copertina è incredibilmente bella, lei era incredibilmente bella.
La
lettura delle note sul retro alimentano la mia curiosità morbosa (“Nico
e’ una figuratragica, controversa…”), e non posso fare altro
che acquistarlo.
In 3
giorni, fatti di ritagli di tempo, “mangio “ il libro, e parto alla ricerca di
tutto ciò chè sono stati musicalmente Nico, i Velvet, Andy Warhol e la
Factory, e che cosa hanno rappresentato per il costume dell’epoca.
Nella mia
vita ho avuto l’opportunità di vedere musei importanti, come il “Louvre”
o il “Prado”, ma la mia poca propensione a quel tipo di arte, mi ha
impedito un reale apprezzamento di opere universali.
L’unica
raccolta di quadri/oggetti che ho veramente “goduto” e’ di tipo contemporaneo.
Mi
riferisco al museo di Warhol che si trova a Pittsbourgh ,
luogo in cui si respira la pop art, la musica, e parte dei tempi che ho
vissuto.
Nico, Lou
Reed, Warhol… un ricongiungimento di elementi solo sfiorati nel corso degli
anni.
La
lettura in questione mi porta anche verso altri libri, come “Tutto quello
che avreste volutosapere sulla Factory di Andy Warhol e non avete
mai osato chiedere”, di Mary Woronov, altra “abitante “ della
Factory.
Questa mia presentazione anomala
del libro, non e’ tesa a recensire il lavoro di uno scrittore
(non e’ il mio mestiere e non ne sarei capace), ma vuole sottolineare come
un episodio occasionale possa aprire la porta verso strade sconosciute,
sull’onda della curiosità.
Sono
stato male leggendo di Nico, del suo figlioletto Ari (avuto
con Delon),del degrado diffuso, della vita alla Factory.
Sono
stato male ripensando a quanto io abbia rischiato, in gioventù
,di lasciarmi intrappolare da ciò che sembrava alternativo e rivoluzionario.
Sono
stato male ascoltando certa musica che non conoscevo.
Sono
stato male, guardando i filmati in bianco e nero.
La
lettura mi ha anche ispirato scritti in cui il protagonista(io)incontrava
occasionalmente Nico, in un bar, prima di un concerto.
Possibile
che la lettura del racconto di una vita porti a tanto?
Mi
piacerebbe sapere se il testo di Lunati e’ contagioso,
se anche ad altri ha fatto il mio stesso effetto! A completare il tutto,
ciliegina sulla torta, un lungo filmato di una 40ina di minuti,
girato dallo stesso Lunati,che propongo a seguire.
E’
incredibilmente bello e consiglio a
chiunque volesse prenderne visione, di dedicare iltempo
necessario… merita davvero.
Oltre a
questo spazio, il filmato e’ scaricabile in rete, su indicazione
dello stesso autore, ed e’ anche disponibile su Youtube.
Prima del
documentario, alcune note oggettive.
Contesto
New York, tardi anni
sessanta: la leggendaria Factory di Andy Warhol. Una galleria di bizzarri
personaggi dai nomi improbabili, inquieti e inquietanti, che si muovono tra
party e locali famosi come il Max's Kansas City, tesi a conquistarsi i "5
minuti di celebrità" di cui parlava Warhol.
NICO
modella
Nico
conobbe i primi successi personali come modella apparendo
su numerose pubblicazioni di moda a diffusione internazionale. Ancora molto
giovane si trasferì a Parigi dove ebbe modo di incontrare il famoso
fotografo Tobias che la ribattezzò Nico, dal nome del suo ex
boy-friend, il regista Nico Papatakis.
Nella sua
carriera di modella, Nico - divenuta pupilla della famosa stilista Coco
Chanel - lavorò fino alla fine degli anni 50 per riviste prestigiose
come Vogue,Tempo , Vie Nuove , ed altre ancora.
Come
attrice ebbe anche un ruolo minore nel film "La dolce Vita",
di Fellini e interpretò alcuni film di Andy Warhol.
Con i
Velvet Underground.
Dopo aver
incontrato Andy Warhol ed essere divenuta un'assidua frequentatrice della sua
"Factory" fu da questi incoraggiata a partecipare, come voce solista,
al primo disco dei Velvet Underground, intitolato appunto
"The Velvet Underground & Nico" con l'inconfondibile
banana warholiana in copertina.
Il gruppo
dei Velvet, anche loro frequentatori della Factory, ebbe il periodo di massima
notorietà dopo la pubblicazione del disco d'esordio (1967): i loro
primi concerti erano vere e proprie performance totali,
comprendenti incontri di teatro, suoni e cinema in cui con la musica venivano
proiettate immagini psichedeliche; un ballerino, Gerard Malanga,
accompagnava canzoni come Heroin e Sunday Morning.
Lo spettacolo, chiamato Exploding Plastic Inevitable o EPI,
era in realtà una creazione dell'artista pop Warhol. Ma la presenza di Nico all'interno
della band è sempre stata problematica: forzata dallo stesso
Warhol, inizialmente non era stata accettata dagli altri componenti; solo John
Cale maturerà con la "chanteuse" un forte legame duraturo
nel tempo (egli sarà infatti il produttore dei suoi più importanti lavori da
solista).
Nonostante
ciò "The Velvet Underground e Nico" è divenuto uno dei
migliori album della storia del rock, carico di
innovazione e spinte targate east coast, momenti suggestivi ed espressioni
metropolitane. In quest'opera s'inserisce la voce di Nico che - dotata di un
timbro rauco e assolutamente personale - viene tuttora considerata una delle
più belle della musica rock
La
canzone Sunday Morning interpretata da Lou Reed con voce
effeminata, è ritenuta un vero capolavoro che il suo particolare modo di
cantare ha reso indimenticabile.
Solista
Verso
la fine degli anni Sessanta decide di abbandonare
i Velvet proseguendo la propria attività di mannequin e registrando
diversi album da solista (di cui Cale sarà un importante collaboratore) ma
senza mai ripetere il successo riscosso con i Velvet Underground. Anni più
tardi dichiarò: "I Velvet volevano sbarazzarsi di me perché ricevevo
più attenzione di loro da parte della stampa", a testimonianza di una
collaborazione forzata anche se ben riuscita.
Questo è,
però, il periodo più prolifico della sua carriera: preso in mano l'harmonium che
Cale le aveva regalato, Nico inaugura un modo del tutto nuovo di concepire la
canzone diventando punto di riferimento e anticipatrice della
corrente dark di fine anni 70.
Dagli
arrangiamenti ipnotici alle melodie pungenti e inquietanti della sua voce, a
volte anche a cappella, la valkiria dai tratti perfetti butta le basi del dark:
gusto per l'occulto, ambientazioni gotiche e mistero si fondono in uno con
senso d'angoscia, alienazione, decadenza e mestizia. "Non so bene come
faccia a vivere. È una continua lotta tra me e me. È un dramma sentirmi comealiena
a me stessa.Non ho alcun riferimento per capire chi io sia. Vivo
come in un perenne esilio" dichiarerà una volta l'artista. Il lavoro
che porta a maturazione queste sue tendenze è Desertshore, in cui gli embrioni
contenuti nel precedente album (The Marble Index) vengono sviluppati a pieno
con risultati grandiosi. Nel 1974, partecipa al concerto collettivo June 1,
1974, organizzato dall'etichetta Island per promuovere la
figura di Kevin Ayers. In esso, appare la sua famosa versione di The
End dei Doors, incisa da Nico un anno prima nell'omonimo
disco.
La morte
Dopo
circa cinquant'anni passati
fra il lavoro di precoce modella, attrice, cantante e musicista,
fra la tossicodipendenza e il continuo senso
d'inquietudine,arriva la morte, e come la vita, è avvolta nel
mistero: morì a Ibiza, nel 1988 per emorragia cerebrale, pare a
seguito di una banale caduta con la bicicletta.
Commento
di Gabriele Lunati
Nico è
una figura tragica, controversa, sfuggente, una delle personalità più
sconcertanti della storia del rock, bellissima, a tal punto da odiare lei
stessa la propria bellezza e proiettare il suo fisico in un tunnel di
autodistruzione che la rese più simile a un puzzle in procinto di disgregarsi
in mille pezzi che a una musa o a una dea di un culto pagano suo malgrado vivo
e profondo. Una donna sola, apolide per scelta, imperscrutabile, con un volto
enigmatico da tragedia greca e il fascino ambiguo di una vita intensa. Ex
modella, attrice principiante, musa della Factory di Andy Warhol, chanteuse dei
Velvet Underground quindi artista solista e ancora attrice impegnata in
pellicole non commerciali, è diventata un'icona tragica e silenziosa che non si
annovera tra le leggende del rock perché ha vissuto buona parte della sua vita
artistica lontano dai clamori e dal music business.Cinica, egoista, eroinomane,
incompresa. La sua fu un'esistenza oscura sul precipizio di un abisso interiore
e come la sua arte, anche la morte di Nico, sacerdotessa sepolcrale del rock,
resterà per sempre avvolta nel mistero.
Il
documentario termina con un’intervista ad una Nico che ipnotizza e provoca
angoscia, e l’ultima canzone, ”Femme Fatale”, scritta per lei da Lou Reed,
assume la “forma del dolore” , e conduce verso una velata tristezza che rimane
a lungo e induce a riflessioni...
PERIF3RIA DEL MONDO è l’ultimo lavoro discografico della Periferia Del Mondo,band
nata a Roma circa sedici anni fa, e quindi con una buna esperienza alle spalle
e significative testimonianze sotto forma di album e progetti paralleli.
Le mie domande
avevano lo scopo di capire qualcosa di più di un gruppo che avevo avuto
l’opportunità di vedere in fase live alla Prog Exhibition del 2010, ma di cui
non conoscevo il lavoro in studio, e mi pare che l’intervista a seguire sia un
importante documento oggettivo che da solo racconta la sostanza della band e la
sua evoluzione.
Undici brani
che, unitamente all’art work, presentano un mondo musicale costruito
sull’osservazione di ciò che ci circonda, e risulterà alla fine quasi banale la
mia sottolineatura sul velato senso di tristezza che … si sente nell’aria,
perché saper captare gli umori circostanti, unire le proprie esperienze e trascrivere il tutto in musica, in questi giorni così pieni di
dubbi e di incertezze, è qualcosa che ha un alto peso specifico, nella forma e
nella sostanza.
La proposta è
variegata, e le liriche - una in inglese - si mischiano ai “viaggi strumentali
- tre - dando il senso del racconto di una vita, una qualsiasi, perché ogni
anima, potenzialmente, possiede storie interessanti, da captare e raccontare.
Mi riesce
difficile individuare un genere preciso con cui
catalogare la PDM, perché la loro musica è
rappresentativa dell’eterogeneità musicale dei vari componenti; si passa dal
progressive al rock un po’ più pesante, dal funky al jazz, dalla musica etnica
a quella più intimistica, e la chiave di volta mi pare proprio il gioco di
squadra, quel modo di pensare e di agire che è sulla bocca di tutti senza che
venga mai applicato con i sacri crismi, e che in questo caso fa sì che i semi
dei singoli membri siano messi a disposizione del progetto generale, senza
chiedere ai talenti personali di restare un po’ nascosti, ma di emergere al
momento giusto.
Alla fine ne
esce fuori un lavoro quasi concettuale - nel senso dell’unione di intenti -che
viene percepito dall’ascoltatore come una struttura molto omogenea e di
impatto, e con un po’ di attenzione e sensibilità certi risvolti, magari meno
afferrabili in fase live, diventano piccole perle da gustare in situazioni di
maggior relax.
“Anche
quando si spengono le luci su di un giorno di quelli un po’ così, resta sempre
una speranza, un raggio di sole. E’ come se fossimo fermi da sempre, insieme
noi due aspettiamo la notte per poter vedere le luci all’orizzonte e poter
amare il giorno quando nasce lento… quando nasce lento.”
Queste parole
mi hanno toccato e mi hanno indotto ad iniziare “il mio viaggio”.
E’ anche
questo il compito della musica e di chi la crea e propone… innescare un effetto
domino che potrebbe dare grandi, enormi soddisfazioni!
L’INTERVISTA
Dal vostro esordio, nel 1996, molte cose sono
cambiate. Riuscite a sintetizzare la vostra evoluzione musicale, dagli inizi
all’album “Perif3ria del Mondo”?
Alessandro Papotto.
Ciò che penso ci distingua dalla maggior parte degli altri gruppi, dove normalmente
è uno solo o al massimo due dei componenti a comporre musica e testi, è il
fatto che ognuno di noi arriva alle prove con idee per nuovi brani o per
completare quelli in corso d’opera; inoltre, cosa non proprio comune, siamo tutti
arrivati alla Periferia Del Mondo attraverso percorsi e influenze musicali molto
diversificate. Spesso i gruppi si formano ricercando componenti che abbiano
omogeneità di stile ed influenze, invece nel nostro caso è stato più un
incontro tra amici vecchi e nuovi, uniti dalla voglia di indagare in libertà
all’interno di tutti i generi musicali.
All’epoca l’unica cosa in comune
tra noi cinque era il pensiero univoco sul significato del termine “Progressive
Rock”: commistione di stili, ricerca di nuove sonorità, ed un pizzico di “spirito
ribelle” sotto la pelle, quello spirito che ti permette di osare e garantire uno
stile e un approccio diversi per ogni nuovo brano. Penso che questa linea
comune sia particolarmente evidente nei nostri primi due dischi, dove peraltro
le influenze del Progressive “storico” degli anni settanta, sono state
sicuramente un terreno di incontro.
Poi con il terzo disco le cose sono
un po’ cambiate ma non di molto: abbiamo cercato di alleggerire le strutture
dei brani e allo stesso tempo di operare una cura ancora maggiore sugli
arrangiamenti. Credo che questi saranno i termini compositivi anche per il
prossimo disco.
Ascoltando il vostro album e leggendo
unitamente il booklet si nota una certa
equità di composizione, una sorta di suddivisione del lavoro anche dal punto di
vista delle idee base, fatto non comune. Atto di democrazia musicale o
filosofia di lavoro ben precisa?
Giovanni Tommasi.
Questo discorso completa ancora meglio la domanda precedente. Penso che ciò che
distingue il terzo disco dai primi due, sia l’aver cercato, alla fine delle
registrazioni, una sequenza ben precisa dei brani all’interno del disco, che
trasmettesse una sorta di continuità.
Non penso ci sia stata una ricerca
di continuità compositiva tra i vari brani ma di sicuro dopo più di dieci anni passati
a suonare insieme, i nostri stili si sono mescolati, e sicuramente tutto è
diventato più omogeneo.
Osservando l’artwork di Davide Guidoni, leggendo e ascoltando al contempo, ho provato
una sensazione di velata tristezza che
prescinde dal messaggio scritto. Qual è l’umore che vi ha guidato in questo
vostro lavoro?
Bruno Vegliante. Noi
generalmente prendiamo l’ ispirazione da ciò che ci circonda, da un evento
particolare, da una sensazione ricorrente. Il nostro tentativo è quello di
collocare l’attualità nelle nostre composizioni, sia in modo esplicito
all’interno delle liriche, sia a livello puramente espressivo per ciò che
riguarda le parti musicali, attraverso la scelta dei suoni, l’intercedere delle
diverse atmosfere, e con qualsiasi altro sistema si riveli efficace.
Penso quindi che la nostra musica rispecchi
in parte il nostro modo di percepire la società che circonda. Una velata
tristezza? Penso proprio di sì. Però penso che ci sia dell’altro: cerchiamo
sempre di inserire mondi e sensazioni diverse nelle nostre composizioni, con la
speranza che l’ascoltatore possa riconoscere quelle in cui più si rispecchia.
Inoltre abbiamo lasciato a Davide la
totale libertà di esprimersi come voleva a livello grafico, limitandoci a scegliere
tra le numerose opzioni che lui ci ha fornito.
Nel 2010 ero a Roma alla Prog Exhibition dove
anche voi vi siete esibiti. Qual è il vostro ricordo di quei giorni?
Claudio Braico. E’
stata una festa bellissima dove abbiamo incontrato tanti amici vecchi e nuovi.
Una festa con molta musica di qualità. I ricordi che affiorano sono le
sensazioni provate all’ingresso sul palco. Aprire una serata così importante e con
così tanto pubblico davanti ci ha dato una incredibile scarica di adrenalina,
cosa che poi ha influito positivamente anche sul nostro concerto. Poi la gioia
di esserci, di fare parte di una manifestazione internazionale con il meglio
del rock progressivo, è stato meraviglioso.
Qual è nella sostanza il beneficio maggiore che
avete trovato lavorando con Franz e Iaia?
Tony Zito: La fiducia
che ci hanno dimostrato, facendoci aprire la seconda serata di quel festival ci
ha dato l’opportunità di farci conoscere ancora di più dal pubblico. Poi le
pubblicazioni discografiche che hanno fatto girare ancora di più il nostro
nome. Insomma l’amicizia con Franz e Iaia, la fiducia reciproca, e il lavoro
svolto in maniera professionale, ci ha portato e sta continuando a portare dei
grossi benefici in termini di visibilità.
Tra i tanti brani ce n’è uno cantato in inglese,
“Synaesthesia”. In che modo è funzionale all’intero album?
Giovanni Tommasi. Ci
piace molto scrivere canzoni in inglese sia per utilizzare una metrica che a
volte risulta più efficace a livello musicale, sia per la possibilità di “arrivare” ad un pubblico più vasto, cosa
impensabile utilizzando la sola lingua italiana.
Diciamo che per ogni nuovo brano
scegliamo ad istinto la lingua che pensiamo si adatti meglio al caso specifico.
Casualmente nel nostro terzo disco c’è un solo brano in inglese, ma è possibile
che nel quarto si verifichi l’esatto contrario.
Creare un nuovo lavoro, album libro o altro
affine presuppone, anche, il rivivere parte di passato. Esiste un rammarico per
qualche passo non compiuto per eccesso di cautela?
Alessandro Papotto. Rispondo
con un pensiero che ci accomuna tutti e cinque: sia per quanto riguarda le
scelte musicali, artistiche ed economiche del gruppo, sia per quanto riguarda
la vita e i fatti personali di ciascuno di noi, che peraltro si ripercuotono
inevitabilmente nelle cose che scriviamo: penso che possiamo aver commesso
molti errori come tutti quanti, ma non esiste la sensazione del rammarico
perché ogni nostra scelta è stata portata avanti con dignità e convinzione.
Secondo me quando vivi in questo modo se ti accorgi che alcune scelte non sono
state proprio felici non te la prendi nemmeno, perché l’errore è una crescita e
fa parte della vita.
Che cosa rappresenta per voi la performance live?
Tony Zito. E’ il
momento in cui ti interfacci direttamente con il pubblico e quindi puoi
verificare le loro reazioni. E’ però anche una situazione diversa da quella in
studio e quindi spesso c’è la necessità di suonare i brani in modo diverso.
Dal vivo cerchiamo di dare la
precedenza ai brani che hanno avuto un migliore riscontro oppure a quelli che hanno
una atmosfera energica, intercalandoli con brani più rilassanti per far
scendere la tensione. Insomma si cerca di studiare una sequenza di brani che
possa funzionare, dando anche al pubblico ciò che si aspetta da noi e, allo
stesso tempo, suonando i brani più recenti, in modo di verificarne il risultato
“sul campo” ed evitare di suonare per anni la stessa scaletta.
Mi piace pensare che dal vivo siamo
un gruppo Rock, nel senso più semplice del termine. Una band che propone degli
spettacoli rock con la grinta e la passione di chi ama la musica.
Che tipo di rapporto avete con le nuove
tecnologie, applicate al vostro lavoro?
Bruno Vegliante. Ci
piace suonare “con ogni mezzo necessario”. L’importante è che per noi abbia un senso
e che il risultato sia per noi adeguato e soddisfacente.
In genere questo lo realizziamo con
l’uso di tanti strumenti diversi, tanti timbri e sonorità differenti, ma tutto
sommato, rimaniamo nell’ambito di tecnologie non particolarmente inusuali.
L’uso del computer è assolutamente positivo per noi, soprattutto se ci rende
più comodo il lavoro. Insomma posso dire che lo usiamo per suonare meglio ma
sicuramente non per suonare meno.
Apriamo il libro dei desideri: cosa vorreste vi
capitasse, musicalmente parlando, nei prossimi tre anni?
Claudio Braico. Quella
che segue potrà sembrare la “Preghiera del buon vecchio rockettaro”: che la
nostra musica “arrivi” alla portata di un pubblico sempre più vasto, che la
stanchezza che comincia a farsi sentire (per l’età che purtroppo avanza) non ci
faccia cedere in ambito compositivo, ma soprattutto che riesca a sopravvivere la
passione con cui usualmente portiamo avanti il nostro lavoro.
1) Periferia Del Mondo
2) Oceani
3) Suite Mediterranea
4) Chiaroscuro
5) Come un gabbiano
6) Alghe
7) Synaesthesia
8) Angeli Infranti
9) Cartolina per il Giappone
10) Piove sul mare