Facile ricorrere ai
luoghi comuni, ne esiste uno per ogni situazione, eppure… contengono solide
verità.
Sono nato a Savona, ho
vissuto in questa comoda città ligure per tutta la vita, alternandola al resto
del mondo.
Sono sempre stato
accompagnato dalla musica, senza la quale avrei avuto una vita monca.
Ho incontrato tante
persone di peso, musicalmente parlando, avendo molto rispetto del genio, della
creatività, dell’applicazione, dello spirito di sacrificio, del perseguimento - e raggiungimento - di un obiettivo ben preciso, che quasi sempre era la ricerca di qualcosa che prima non esisteva… che fortuna esserne capaci!.
Tra le centinaia di
storie che ho toccato con mano, ce n’è una che mi riguarda abbastanza da
vicino, e che mi pare del tutto aperta, in evoluzione, ma ancora da settare. L’affermazione
“abbastanza da vicino” la posso
motivare col fatto che l’uomo in questione è nato nella mia città, che è mio
coetaneo e che l’ho visto nascere come musicista, perché quando lui
iniziava ad incrociare le bacchette della sua batteria, a me sembrava un
marziano… aveva dodici anni.
L’ho ritrovato dopo
pochi anni, in una band prog, una delle più conosciute a Savona, La Corte
dei Miracoli, di cui ho scritto qualcosa in questo spazio:
E poi chissà dove è finito Flavio Scogna, quel batterista
virtuoso e all’avanguardia!
I casi della vita e la mia curiosità musicale mi riportano
sulla sua strada… sono io che cerco lui, ormai in pianta stabile a Roma. Non
più batterista, ma… compositore e direttore d’orchestra di fama internazionale.
Accidenti che cambio di percorso!
Poco interessanti i dettagli, poco importa sapere quanto il
nostro legame, apparentemente labile sia al contrario saldo, ma restando su
elementi oggettivi ho subito avvertito la necessità che Savona si
riappropriasse di uno dei suoi uomini migliori, che solitamente danno lustro, e che normalmente si fa a gare per averli accanto.
I miei tentativi di vederlo al lavoro nella sua città non
hanno avuto buon esito, e francamente resta fatto incomprensibile.
Pochi giorni fa ho appreso una bella notizia che lo riguarda,
che sicuramente lo inorgoglisce, ma che dovrebbe inorgoglire l’intera comunità savonese, e
interessare chi opera in campo musicale e culturale in genere.
Espongo per intero ciò che ho trovato:
Scogna, Flavio Emilio
Scogna,Flavio Emilio. - Compositore e
direttore d’orchestra italiano (n. Savona 1956). Dopo aver studiato
composizione e direzione d’orchestra ed essersi laureato in Discipline della
musica (Università di Bologna), è stato allievo di F. Ferrara (1982-83) e ha
collaborato a lungo con L. Berio (1984-88). Le sue opere (tra le qualiAntoneLa memoria
perduta) sono state
rappresentate in tutta Europa e hanno sempre ottenuto il favore della platea.
S. poi ha diretto alcune tra le più importanti orchestre sinfoniche del mondo,
affiancando il repertorio tradizionale e operistico a quello contemporaneo e
del Novecento.
Essere parte dell’Enciclopedia Universale
Treccani non è fatto comune, avere dei “vicini di casa” di nome Verdi e Rossini
è altrettanto inusuale.
Ed ora la domanda nasce spontanea… basterà
tutto ciò per ottenere un po’ di luce in casa propria? Sono certo che “ il
Maestro Scogna ” non farà niente per accenderla… qualcuno dovrebbe
pigiare il giusto interruttore ed illuminare a giorno!
Utilizzo le note inviatemi dalla
Synpress 44 di Donato Zoppo per pubblicizzare il ritorno in Italia di uno dei
miei miti musicali, Greg Lake.
GREG LAKE: biografia (da Wikipedia)
Non sono molti i compositori che
possono vantare il talento di Greg Lake:
il livello compositivo, la preparazione musicale, la profondità dei suoi testi
lo hanno fatto avvicinare dalla critica "colta" a Leonard Cohen, Bob
Dylan o Paul McCartney; il visionario talento come produttore, l'abilità come
bassista e chitarrista e, soprattutto, l'incredibile voce: una delle migliori e
più imitate di tutta la storia della musica rock.
Dopo un paio di singoli psichedelici
con gli Shame e i Shy Limbs nel 1967, e dopo avere
militato nei Gods con i futuri Uriah
Heep, Ken Hensley e Lee Kerslake, avviene l'esordio nel mondo discografico nel
1969 quando Lake entra a far parte dei King
Crimson per la realizzazione di In the Court of the Crimson King.
Lake suona il basso elettrico, canta e compone, contribuendo non poco alla
riuscita di questo disco che è considerato il capostipite del movimento rock
progressivo e sedendosi, sebbene non specificamente accreditato, dietro al
banco della produzione di quell'album seminale. Musicista dotato di una voce
angelica di straordinarie estensioni e potenza, chitarrista (specie acustico)
virtuoso, bassista innovatore e compositore di singolare talento, front-man
carismatico, diviene l'anima principale della prima incarnazione dei King
Crimson.
Lake compie poi una tournée
statunitense con King Crimson, ed inizia a contribuire al loro secondo album,
ma prima che questo sia terminato, se ne va per unirsi a Keith Emerson e Carl
Palmer e dare vita al progetto ambizioso e avanguardistico di Emerson Lake and Palmer. Il loro
esordio avviene al festival dell'isola di Wight ed è subito chiaro che ELP è
uno dei migliori supergruppi del rock. Seguono diversi dischi nei quali Lake si
destreggia fra vari strumenti, e compone alcune ballate che sono tra i più
grandi classici del gruppo. Il suo lavoro meticoloso di produzione del suono è
fondamentale per creare quel sound definito "progressive". Collabora
con l'ex King Crimson Pete Sinfield,
poeta visionario e profondo con il quale Lake condivide affinità spirituali e
artistico/culturali. Fonda e gestisce l'etichetta Manticore per la quale produce, tra gli altri, due band italiane:
la Premiata Forneria Marconi (che diviene per semplicità PFM) e il Banco del Mutuo Soccorso (Banco).
Nel 1975 esce il primo singolo a suo
nome I
Believe in Father Christmas, filosofica riflessione sul Natale scritta
a quattro mani con Sinfield che diviene un classico delle canzoni di Natale,
unico esempio di song rock (assieme a Happy
Xmas di John Lennon) a migrare tra gli evergreen natalizi. Gira un
suggestivo video per questa canzone nel deserto del Sinai.
Nel 1980 dopo 40 milioni di dischi
venduti, ELP si scioglie. Lake si lancia in una carriera solista che gli dà modo di produrre due dischi : Greg
Lake e Manoeuvres. Contemporaneamente partecipa al tour giapponese
degli Asia ( gruppo progressivo nel
quale milita anche Carl Palmer). Scrive canzoni con Bob Dylan, una delle quali trova posto nel citato primo album da
solista. Nel 1986 Lake ritrova Emerson e con Cozy Powell al posto di Palmer,
impegnato con il supergruppo Asia, realizzano l'album Emerson Lake and Powell.
Nel 1990 Lake compone la canzone Daddy
in favore del National Center for Missing Exploited Children. Cresce il suo
impegno in cause umanitarie. Nel 1992 avviene il ricongiungimento di ELP, che nel giro di tre anni realizza
tre album, l'ultimo dei quali con un produttore disastroso sul trono un tempo
di Lake. Nel 2001 va in tournée con Ringo
Starr, ex Beatles, mentre nel 2003 partecipa ad uno show al Ronnie Scott
Club di Londra, assieme ad altre star della musica, per merito del quale
vengono raccolte 400.000 sterline a favore della ricerca sul cancro. Nel 2004
collabora con Pete Townshend nel
nuovo singolo degli storici The Who Real
Good Looking Boy.
Il 2005 vede il grande ritorno sulle
scene di Greg Lake con una propria band formata da giovanissimi talenti, per
una tournée inglese, accolto con entusiasmo dalla critica e bene anche dal
pubblico, dal quale è stato pubblicato un doppio DVD. Recentemente ha suonato
in America al Nassau Coliseum come ospite d'onore della Trans Siberian Orchestra. Nel 2010 dà vita ad un tour mondiale
(USA, Giappone e Europa) con il suo vecchio compagno di ELP Keith Emerson, nel quale saranno
impegnati a ricordare le proprie carriere.
Nell’aprile 2012, con un atteso
concerto a Quebec City, ha inizio Songs Of A Lifetime: An Intimate Evening
with Greg Lake, il nuovo tour solista di Greg Lake: numerose date tra
Nord America e Gran Bretagna, per uno spettacolo autobiografico nel quale Greg
racconta la sua vita e la sua carriera. A fine novembre 2012, finalmente il
tour approda in Italia.
Piacenza, Roma, Bologna, Verona, Trezzo sull'Adda e Firenze: dal 28 novembre al
5 dicembre un'intramontabile leggenda del rock torna nel nostro paese. Vocalist
di King Crimson e Emerson Lake & Palmer, il musicista inglese racconta la
propria carriera in un avvincente spettacolo solista Songs of a lifetime: Greg Lake in tour in Italia
Art Up Art
è lieta di presentare:
SONGS OF A LIFETIME:
AN INTIMATE EVENING WITH GREG LAKE
...il tour italiano di Greg Lake...
"La musica, gli aneddoti, domande e risposte con il pubblico
e molto altro": così Greg Lake presenta Songs
Of A Lifetime, il nuovo tour solista che finalmente, dopo una grande
attesa, approda in Italia. 28 novembre Piacenza (Teatro
Municipale), 1 dicembre Roma (Teatro Ambra alla Garbatella), 2
dicembre Bologna (Auditorium Manzoni), 3 dicembreVerona (Teatro
Camploy), 4 dicembre Trezzo sull'Adda - MI (Live Club), 5
dicembre Firenze (Viper Club): queste le sei serate che Lake
terrà nel nostro paese, dal quale è assente dal 1997, anno dell'ultimo tour
italiano di Emerson Lake & Palmer.
Nato a Bournemouth il 10 dicembre 1947, dopo aver militato con
gruppi dell'underground inglese come Shame, Shy Limbs e Gods,
debutta nel 1969 con i King Crimson di In The court Of
the Crimson King. Sua la voce nell'indimenticabile capolavoro del progressive
rock, di cui interpreta l'atteggiamento più sfrontato e virtuosistico -
incarnando anche lo slancio melodico e la vocalità suadente - con il
supergruppo Emerson Lake & Palmer. Il trio, nel quale canta e
suona basso elettrico e chitarre, è tra i grandi protagonisti del rock
internazionale degli anni '70: durante il decennio Greg collabora anche
con Pete Sinfield, fonda l'etichetta Manticore, infine
dopo lo scioglimento del gruppo lancia la propriacarriera solista. E'
un'avventura longeva e di grande successo, tra collaborazioni importanti
(da Bob Dylan a Ringo Starr) e reunion con Emerson
e Palmer, come quella del 2010 a Londra. Nel 2005 Greg Lake torna dal vivo con
la sua band e ancora oggi è attivo on stage, con tanta voglia di
raccontarsi.
L'11 aprile 2012 ha inaugurato da Quebec City un lungo tour chiamato Songs
Of A Lifetime: An Intimate Evening With Greg Lake, che finalmente
arriva in Italia dopo un fitto calendario tra Nord America e
Inghilterra. E' un'operazione che Greg affronta da solo, con la sua voce,
le sue chitarre e una lunga storia da raccontare al pubblico: è
proprio lo spirito di condivisione ad animare ogni concerto, che egli sviluppa
narrando i propri trionfi ma anche le prime esperienze e i miti di gioventù. Lo
stesso Greg ha dichiarato: "L'idea di una performance intima e
autobiografica è una grossa sfida, è qualcosa di talmente stimolante
che il solo pensarci mi emoziona: ho voglia di creare uno show diverso
ogni notte, memorabile e unico, inatteso e d'impatto. Un evento intimo e
imprevedibile insieme al pubblico". La stampa ha accolto
con grande favore lo spettacolo, imminente la pubblicazione dell'autobiografia di
Greg Lake, ispirata proprio da questo emozionante viaggio artistico.
Un bel po’ di tempo fa, quando uscì TAAB2, nuovo album della “moderna versione” dei Jethro Tull, avevo
chiesto a Gian Piero Chiavini, fine conoscitore delle vicende tulliche, di
raccontarmi - e approfittarne per coinvolgere i lettori - le sue impressioni
sul nuovo album che aspettavamo da una vita, giacchè io non avevo ancora avuto
la possibilità di ascoltarlo.
Mi aveva chiesto tempo e… oggi è arrivato il suo nutrito commento!
Da molto tempo stavo pensando di
scrivere qualcosa riguardo a TAAB2.
Probabilmente se fosse stato
semplicemente un “nuovo album dei Jethro Tull” e se non vi fossero stati
cambiamenti epocali nella line-up attorno a Ian Anderson avrei buttato giù due
righe già dopo poco l’uscita dell’album.
Premetto che inizialmente il mio
progetto di tutto ciò prevedeva quindi un semplice e, se vogliamo, banale commento
di ciascun pezzo dell’album.
Ma, come ripeto, TAAB2 ha segnato
una svolta epocale e assolutamente inaspettata e “spiazzante”, come d’altronde ovvio
trattandosi di un’opera di un genio a tutto tondo come Ian che fin dalla nostra
adolescenza ci ha abituato nostro malgrado, o per nostra gioia, a stupirci.
Per questo finora mi sono limitato
a commentarne solo qualche pezzo in Facebook e a cimentarmi in scaramucce nel
Forum, mentre in realtà cercavo dentro me stesso di capire e focalizzare il
senso più profondo di ciò che TAAB2 significa nella Storia tulliana/andersoniana.
Ma alla luce della recente
pubblicazione dell’ultima fanzine in cui, accanto ad un interessantissimo e
imperdibile racconto di Mr. President Aldo riguardo a come è stato concepito e
via via corretto in corso d’opera l’album stesso, e che ci fa mirabilmente
sentire come se fossimo stati fisicamente tutti lì accanto a lui, e Ian a
“costruire” TAAB2, c’è anche una lucidissima analisi dei vari brani da parte
del Profèssor Cadoppi, e visto che tale analisi collima esattamente con ciò che
avrei voluto scrivere, mi limiterò solo a fare qualche considerazione di
carattere generale su quello che io credo possa essere il significato
dell’album e di come possa essere inserito nell’ambito della storia
tulliana/andersoniana.
Propongo quindi solo le mie idee
(personali, soggettive e quindi criticabilissime) in questo Blog, ma ancora
adesso in realtà scrivendo più che per i lettori per me stesso, con il
tentativo di riorganizzare la massa di sensazioni, considerazioni, valutazioni
che già da molto tempo turbinavano nella mia mente, cercando disistematizzarle alla luce di tutto ciò che è
accaduto nell’ultimo anno appena trascorso.
Per questo devo fare un “rewind
mentale” e tornare indietro fino ai tempi della pubblicazione degli album
solisti di Ian e parallelamente alla dicotomia concettuale tra i concerti dei
Jethro Tull propriamente detti da un lato e quelli invece accreditati al solo
Anderson.
Le prime sensazioni soggettive
(parlo quindi di me stesso senza avere la pretesa che tali sensazioni debbano
essere condivise) che si fosse giunti ad un momento critico (destruente?
rigenerativo?) nella Storia Tulliana, anche se già aleggiavano preoccupazioni,
aspettative e angosce da tempo, vista la latitanza di nuove opere in studio di
registrazione dei Jethro Tull dai tempi di DotCom, mi si fecero più intense in
un momento per me fondamentale e cioè dopo l’uscita di “Rupi’s Dance”.
Non che tale album solista di Ian
potesse essere considerato un capolavoro, sicuramente un tantino inferiore al
precedente “Secret Language of Birds”, ma se quest’ultima ancora poteva essere
considerata un’opera a latere, parallela e non prevaricante né sostitutiva
rispetto all’esistenza fisica dei Jethro Tull, “Rupi’s.Dance” ci dette la definitiva
sensazione che Ian avesse tutt’altra voglia che proseguire il capitolo JT e
questa sensazione la scrissi nell’allora “Write on the Bricks”, ovvero l’indimenticato
(per noi vecchi tulliani) “Muro” del Sito
curato dal carissimo Lincoln.
Da un lato assistevamo ad una
esclusiva produzione solista di Ian a fronte di un suo totale disinteresse
riguardo a nuove cose tulliane in studio (se si eccettua l’inconsistente e
concettualmente inutile “Christmas Album” che suona più come una pietra tombale
tanto che invece che “Christmas Album” lo definii “Requiem Album”), dall’altra
la reiterazione di concerti con il logo Jethro Tull, sempre uguali e
progressivamente sempre peggiori non solo dal punto di vista musicale ed
esecutivo, ma anche come entusiasmo e feeling (la mia definizione in gergo
toscano era impietosamente di “Band sfavata”), per di piùad una sempre maggiore sovrapposizione di
concerti solisti di Ian con line-up diverse.
Già allora scrissi come secondo me
i JT fossero, se non fisicamente, concettualmente già morti, che la loro
esistenza fosse paragonabile ad un paziente tenuto in vita artificialmente con
una sorta di accanimento terapeutico e che in realtà fossimo tutti lì a fare
“la veglia ad un morto” che già emanava fetore di putrescenza.
Tutto questo perché avevo la
sensazione che Ian fosse giunto ad un punto della propria storia culturale e
musicale in cui voleva/doveva cambiare rotta.
Lui stesso d’altronde dichiarò di
non sentirsi (anzi, di non essersi mai sentito) un vero e proprio musicista
rock sensu strictu, affermazione forse paradossale da parte di chi aveva
concepito un “Aqualung”, ma comprensibilissima se consideriamo la enorme
vastità della cultura non solo musicale di un genio come lui per il quale ogni
confine concettuale seppur ampio è sempre stato troppo stretto.
Ma allora perché, mi stavo
chiedendo in quei tempi, continuare in questa strada così schizofrenica?
Da un lato cercavo spiegazioni
bassamente economiche (come se Ian avesse ancora bisogno di intascare qualche
altra sterlina da mettere nelle proprie già traboccanti casse) e che per questo
avesse ancora bisogno del logo JT nei concerti sia per non perdere il pubblico
nostalgico e sia per attrarre nuovi aficionados tra i giovani, visto che
moltissimi tra le nuove generazioni, insoddisfatti dell’inconsistenza del
panorama musicale da almeno un paio di decenni a questa parte, stavano
scoprendo e subendo il fascino della musica degli anni ’70.
Dall’altro lato viceversa
riversavo la colpa su Martin Barre, il fedele e fondamentale scudiero di Ian in
tante gloriose battaglie del passato, ritenendolo così talmente e rigidamente
legato al passato stesso da essere alla lunga diventato una limitazione, un
grave impedimento alla evoluzione ed al compimento delle nuove concezioni
musicali di Ian.
Pur con tutta l’ammirazione, la
gratitudine, l’affetto per quello che Martin ha sempre rappresentato
nell’economia della Storia Tulliana, lo consideravo adesso un cordone
ombelicale che da necessario per il nutrimento della creatura JT era divenuto
una catena nociva che andava necessariamente recisa per permettere a Ian di
potersi finalmente esprimere in modo completamente autonomo e di svilupparsi e
realizzarsi nel modo che adesso sentiva come più confacente alla propria
evoluzione musicale che da un lato esprimeva una crescita culturale ed una
maturità e dall’altra una necessità legata al trascorrere degli anni con tutti
i limiti fisici e soprattutto vocali che ciò comporta.
Comunque sia una ovvio ed
inevitabile differenza tra lo Ian di 30-40 anni fa e quello di adesso ( in
questo senso, ereticamente ed impietosamente ed attirandomi le contumelie di
gran parte dei fans tulliani specie nel Forum, mi ero spinto a definire Martin
“una palla al piede” dello Ian attuale, ipotizzando con le debite differenze
una analogia con il pur grande Mick Abrahams con il quale da This Was non
saremmo mai passati a Stand Up ed a tutto ciò che ne è seguito).
Che poi ciò sia criticabile o
esaltabile a seconda dei giudizi dei fans storici è relativamente importante,
ciò che conta è che ogni artista possa e debba esprimere se stesso al meglio
nel cambiamento, altrimenti si corre il rischio (come accade per molti gruppi
storici degli anni ’70 sciolti e poi riformati spesso in modo estemporaneo e
transitorio e come accadeva da troppi anni per i Jethro Tull propriamente
detti) di presentarsi come patetici monumenti a se stessi, corrosi dal tempo e
dalle intemperie, magari ancora oggetto di ammirazione da parte di qualche
ragazzino che ci passa davanti e non li conosceva nel loro vecchio splendore, ma
difficilmente riconoscibili, sotto gli
escrementi di piccioni via via accumulatisi sopra, dagli gli anziani “sitting on a park bench”.
Alla luce di queste
considerazioni, mi aspettavo da un momento all’altro la definitiva rottura tra
Ian e Martin (ovvero ciò che poi è effettivamente accaduto), auspicandomi la
nascita di una Ian Anderson Band che continuasse sulla linea dei solo di Ian,
intimista e prevalentemente acustica folk-classic-etno-new age con una line up
allargata ad una seconda voce preferibilmente femminile ed ad un violino in
pianta stabile come ideale complemento al flauto in quanto, una volta chiuso il
glorioso capitolo Jethro Tull e alla luce del sound più propriamente definibile
neo-andersoniano, la vedevo come unica strada possibile.
Bene, dopo una interminabile serie
di annunci e ritrattazioni, di affermazioni e smentite che hanno dato luogo a
congetture, dietrologie, ironie e nervosismi… finalmente l’annuncio: il nuovo
album era finalmente pronto, con una line up fortemente modificata tanto da non
essere più definibile come “Jethro Tull”, ma ai JT stessi fortemente correlata
in quanto sviluppo ideale del capolavoro tulliano dell’età aurea, ovvero quella
di Thick as a Brick.
Si sarebbe chiamato, in modo da un
lato (a priori) ammiccante, ma
dall’altro (a posteriori) concettualmente significativo, “TAAB2” anche se a mio avviso il vero titolo è più propriamente
“Whatever happened to Gerald Bostock?”.
Non nego il mio sentimento
ambivalente: la morbosa curiosità e il bisogno di sentire finalmente un
qualcosa di nuovo partorito dall’utero andersoniano, e allo stesso tempo il
timore di una tremenda delusione, sia per la ipotizzata irreversibile siccità
della vena creativa di Ian, sia per il riferimento ardito, forse troppo
coraggioso o incosciente dei propri mezzi, ad una pietra miliare unica e
irripetibile come Thick as a Brick (io che ho sempre odiato per principio i
sequel).
Fatto sta che appena mi è arrivato
per posta l’album acquistato in prevendita ho aspettato almeno una settimana
prima di infilarlo nel lettore cd, girandolo e rigirandomelo tra le mani,
leggendo l’inserto e prendendomi in giro con il pretesto/proposito di aspettare
di avere un intero giorno libero per ascoltarlo e valutarlo con calma.
Finalmente un giorno mi sono
deciso: ho tolto il cd dalla (splendida) confezione e l’ho messo su:
“ Da..Da..Daaaa…” Cribbio… ma QUESTI SONO I JT
!!!
Via via che la musica scorre,
intorno e dentro di me, sento un’emozione da troppo tempo sopita, sensazioni
delle quali da troppo tempo sentivo il bisogno appena mitigato dalle dolci
tenui pennellate di “Secret Language” e “Rupi’s”… pennellate certamente
affascinanti, ma prive di quell’impeto e
ardore tulliano, quel fuoco che aveva illuminato
la mia adolescenza, quel fuoco costituito da mille e multiformi fiamme che
avevano fatto dei Jethro Tull il “mio” gruppo, relegando tutto il resto del
panorama musicale dell’epoca a cose più o meno affascinanti, ma nessuna
veramente “pregnante”.
Scorre la musica, sento lo Ian
degli album solisti che pian piano assume toni sempre più propriamente
tulliani… Banker Bets è il punto di
viraggio, Adrift and Dumfouded il
ritorno al sound tulliano che amavamo e al tempo stesso ne è la proiezione nel
futuro con quell’inconfondibile e mirabile mix tra quello che ho sempre
definito il Tull-Blues e tutto ciò che la Storia della Musica ha donato alla
nostra curiosa mente di musicofili: jazz, folk, rock e quant’altro possiamo
trovarci.
A seguire Old School Song in cui la citazione di TAAB1 non è una furba
operazione commerciale, ma un link doveroso e incontestabile al glorioso passato
e al tempo stesso una introduzione ad una giga-rock di rara potenza e fascino.
Scorre la musica…”Wotton Basset Town” a regalarci
atmosfere evocative visionarie col flauto magico e una chitarra che disegnano
panorami tali da rendere impossibile non definirli tulliani, “Shunt of Shuffle” che nobilita certe sonorità espresse nel pur
controverso Crest of a Knave, “A Change of Horses” già “provata” dal
vivo e rivista, aggiustata fino a diventare una delle cose più belle dell’opera
andersoniana, una specie di viaggio onirico nel quale ho immaginato una nave
vichinga che scorre lenta e maestosa tra le nebbie (le stesse nebbie, questa
volta marine, delle brughiere scozzesi di Benefit) che approda in lidi
stranieri e lì i celtici marinai ingaggiano epiche battaglie.
Beh… lasciatemi sognare, ad onta
dei detrattori, degli irriducibili nostalgici per i quali “no Martin, no
party”, di coloro che con la fine della manifestazione fisica contingente dei
Jethro Tull considerano finita un’epoca.
Lasciatemi nella mia pia illusione
che, se i Jethro Tull come entità contingente sono finiti, non sia finita anche
la tullianità come essenza.
Lasciatemi pensare che Ian
Anderson non sia stato solo una cosa necessaria, ma indispensabile dello
spirito tulliano.
Scusatemi se mi sento orgoglioso
di condividere pienamente ciò che ha scritto Aldo “the President” ed espresso
con mirabile entusiasmo il “Profèssor” Pancotti nella ultima fanzine del Fan
Club ovvero che i Jethro Tull (se non come entità fisica e manifestazione
contingente ma come entità sovrannaturale) non sono morti ma semplicemente
reincarnati in quella che, se volete, possiamo definire la Ian Anderson Band e
che TAAB2, come da me scritto attirandomi le ire della maggior parte dei
forumisti, possa e debba essere considerata un’opera tulliana A TUTTI GLI
EFFETTI !!!
In definitiva: Ian Anderson è il
“My God”… Poi nel paradiso tulliano possiamo pure metterci tutti i Santi che
vogliamo, da quelli più importanti a quelli più sfigati, ma per motivi storici,
concettuali (e, se volete, legali), nessun altro che abbia frequentato più o
meno a lungo questo Paradiso può arrogarsi il diritto di vivere in futuro nutrendosi
del cibo tulliano.
In tale ottica permettetemi anche
di criticare, seppur a malincuore, quello che sta facendo il buon caro Martino
Lancillotto Barre, ovvero “featuring Jethro Tull” stravolgendo cacofonicamente
grandi cavalli di battaglia Tulliani (ivi compresa quella “Song For Jeffrey” a
lui estranea… BEWARE !!!
“Duck in the box” è il primo album dei Flower Flesh, gruppo del ponente savonese, da tempo attivo in fase live. Come sottolineato da Alberto Sgarlato nell’intervista a seguire, la band ha scelto la via forse più difficile e “costosa” per presentare il proprio progetto, al momento completamente autofinanziato. Ma questi ragazzi, mi pare di capire siano legati ad aspetti collaterali (apparentemente) alla”sostanza” della musica, vale a dire il piacere di toccare, annusare, guardate e vivere una copertina di un CD, analogamente a quanto avveniva (ma il fenomeno sta tornando alla ribalta) per i vinili, quando certi riti erano inseparabili dal'elemento "suono". E questo lato “antico”, di per sé sorprendente, se riferito a giovani uomini, è palese nella loro proposta. Oltre quaranta minuti di musica composta e arrangiata dai F.F. con il prezioso aiuto di Alessandro Mazzitelli, presso il cui studio sono avvenute le registrazioni e le conseguenti correzioni tecniche.
Difficile inserire questo “disco” in un preciso contesto, cosa da cui la band, sono certo, fuggirebbe. Eppure dare un segno di distinzione è cosa utile per chi, preso dalla curiosità, decidesse di saperne di più, magari dopo essere rimasto affascinato dalla grafica della cover.
Duck in the box è il sunto delle esperienze musicali accumulate nel tempo, e sgorgate spontanee al momento giusto. Perché sottolineare qualcosa che sa di ovvio? Alberto racconta come non sia mai stata una preoccupazione il creare secondo steretotipi, ma piuttosto lasciar fluire la musica senza vincoli temporali, ne concettuali. Il cantare in inglese (tranne brevi concessioni alla nostra lingua) è funzionale all’essere universali, al passare il messaggio in un idioma ormai di tutti, con il pregio della “musicalità” che solo la lingua di Albione presenta.
La musica progressiva resta una linea guida su cui si inseriscono momenti più “duri”, alternati a fasi sognanti. Ma in questo contenitore pieno di reminiscenze “classiche”perfettamente miscelate tra loro, si colgono attimi, “anch’essi classici”, che si rifanno a periodi in cui il prog doveva ancora esplodere. Mi riferisco a similitudini col mondo dei Doors, reso esplicito dall’unico vocalist che abbia mai sentito vicino a Morrison. La voce di Daniel Elvstrom ha infatti la caratteristica di ricordare (non solo nel brano citato nell’intervista) la famosa timbrica di Jim.
Prog, new Prog, rock, folk… Alberto Sgarlato ci spiega nei dettagli quale sia il verbo dei Flower Flesh, un gruppo di qualità che ha scelto l’impervia strada della musica di impegno che, sono certo, darà loro grosse soddisfazioni… e sono altresì sicuro che una buona dose di “sofferenza” è già stata presa in conto!
Tutte le informazioni sulla band e sul loro lavoro si possono reperire ai seguenti link:
Come è nato e come si è evoluto ilprogetto “Flower Flesh”?
Le cose più piacevoli capitano sempre per caso. Tra il 2005 e il 2006 io lavoravo in uno studio di grafica a Pietra Ligure e il bassista, Ivan, lavorava per l’azienda che ci curava la manutenzione degli estintori. Ci conoscevamo solo di vista, prima di quel momento, e ognuno dei due sapeva che l’altro suonava. Durante gli interventi di manutenzione ordinaria facevamo conversazione e ci raccontavamo le rispettive idee, i progetti, i sogni… finchè un giorno Ivan mi ha detto: “Con alcuni amici sto allestendo una nuova sala prove a Tovo S. Giacomo. Perché qualche volta non ci vediamo là, per vedere un po’ che cosa esce fuori?”
Che tipo di cultura e formazione di base vi ha portato ad esprimervi in un ambito che si può definire di nicchia?
Reputo molto importante il fatto che quando si è stabilizzata la formazione nessuno di noi ha detto: “facciamo una band che suoni il tale genere, o con il tale stile”. Abbiamo semplicemente detto: “Cerchiamo di produrre qualcosa di nostro. Di cover band in giro ce ne sono già troppe”. Ognuno di noi 5 ha ascoltato musica praticamente da sempre, e abbiamo dei gusti estremamente vasti. Ma nel momento in cui ogni componente ha presentato agli altri le sue idee e ci si lavorava tutti insieme, ci siamo resi conto che il “fil rouge” che ci legava maggiormente era il cosiddetto progressive rock. Anche gli amici che venivano a trovarci in sala prove ci dicevano: “Dovendo per forza collocarvi in un genere, le atmosfere che evocate maggiormente sono quelle progressive”. Del resto il mondo prog è un calderone talmente vasto!
Non amo molto le etichette, ma dopo il primo ascolto potrei inserire “Duck in theBox” nella sfera del progmoderno…. un po’ “metallico”. Come spieghereste il vostro genere espressivo ad un giovane che ascolta musica senza particolari conoscenze?
Se dovessi spiegare quello che faccio a un non-addetto-ai-lavori e senza terminologie tecniche gli direi che i Flower Flesh patiscono gli schemi: no alla classica canzonetta da tre minuti, no alla classica formula strofa-ritornello-assolo-finalino, no al classico tempo quadrato pum-ciack-pum-pum-ciack… Se abbiamo voglia di fare due minuti di intro esotica, su scale che evochino quelle arabe o mediorientali, e poi farla sfociare in un riff di chitarra hard, e poi staccare con un giro funky, lo facciamo. L’importante è suonare tutto quello che ci piace senza vincoli o costrizioni. E comunque devo dire che proprio dai non-addetti-ai-lavori ci sono sempre arrivati i giudizi più lusinghieri. Quando dopo un concerto viene da me qualcuno del pubblico che mi dice: “Guarda, io non capisco niente di musica e non me ne intendo proprio, però mi siete piaciuti un sacco!” per me è il commento più bello, più emozionante e più “puro” che ci sia, perché viene premiata la bellezza della canzone, a prescindere da qualsiasi preconcetto di genere o di stile.
Musica e liriche. Quale peso date ai testi e quanto può essere efficace il “messaggio” che deriva dalle parole integrate dai suoni?
Per i Flower Flesh i testi sono importantissimi e la scelta della lingua inglese aspira proprio a trovare una sorta di linguaggio universale, che arrivi a più gente possibile. Nelle note del CD troverai testi firmati da D.E., il nostro cantante, da me e da Eugenio (detto “Meo”), il nostro ex-cantante. I contenuti delle nostre canzoni sono molto “figli del nostro tempo”, parlano di quei mali del vivere odierno di cui ogni giorno leggiamo sui giornali o su internet (e di cui si parla poco in tv): lo stress, l’ansia, il raffreddamento dei rapporti umani, le guerre. “Falling in another dimension” o “The race of my life” parlano del cosiddetto “logorio della vita moderna”: i ritmi sempre più frenetici, spesso insostenibili; “God is evil (like the devil)” parla di quelle persone di chiesa – di tutte le Chiese – che si nascondono dietro la religione per perpetrare la loro malvagità; “Scream and die” parla dell’occupazione sovietica in Afghanistan degli anni ’80, citando anche dei versi dall’antologia di poeti afghani intitolata “Versi di fuoco e di sangue”; “Antarctica” parla del gelo all’interno di una coppia. In questo periodo ci stiamo cimentando con il nostro primo testo tutto in italiano ed è un’esperienza davvero divertente, perché sta avvenendo in modo del tutto nuovo: per la prima volta anche le parole di una nostra canzone nascono come finora era nata la musica, cioè con il contributo di tutti. Chi suggerisce una rima, chi inverte due strofe, chi sostituisce una parola…
In alcuni passaggi del disco mi è parso di sentire un tratto ben specifico, nello stile e anche nella voce. Se prendiamo ad esempio ”God is Evil...” si capta, inizialmente, una certa affinità con i Doors (sembra di risentire Manzarek e Morrison). E’ solo un errato feeling da primo ascolto? Se no… è qualcosa di inconscio o di ricercato?
Come ti dicevo prima, non abbiamo mai detto tra di noi: “Ora facciamo una canzone in stile Tizio” o “Qui ci metterei un bel passaggio in stile Caio”. Tutto avviene sempre di getto, in modo molto istintivo. Così è successo che mentre imbastivamo “God”, riascoltandoci ci siamo resi conto che suonava effettivamente doorsiana, ma per un caso. Allora ci siamo detti: “Perché non calcare lamano in questa direzione, per farne proprio una sorta di omaggio?”. Del resto, si tratta solo dell’inizio, poi al primo cambio il sound si trasforma completamente. Allo stesso modo, il finale sempre di “God” vorrebbe essere un omaggio ai Quicksilver Messenger Service, un’altra band che molti di noi, all’interno della formazione, ascoltano, ma di certo meno famosa dei Doors a livello mondiale. Potrei dirti che sicuramente i Doors o i Quicksilver fanno parte del nostro DNA e del nostro percorso di crescita interiore, ma né più né meno, in fondo, di decine e decine di altri artisti e band, dai Genesis ai Rush, dai Led Zeppelin ai Queen, dai Marillion ai Simple Minds, da Kate Bush a Peter Gabriel, dagli Steely Dan ai Toto… e chissà quanti altri!
Che tipo di resa riuscite ad avere nella proposizione dell’album in fase live?
Come forse avrai notato, il CD inizia con i 4 colpi delle bacchette, proprio come un concerto. Ecco, li abbiamo lasciati apposta, perché volevamo che tutto suonasse più “live” possibile. Non abbiamo suonato mai a metronomo, quasi tutto è inciso in presa diretta, sovraincisioni ridotte al minimo indispensabile. Certo, quando sei in studio la tentazione di “infiocchettare” il tutto c’è, ma abbiamo aggiunto soltanto minimi tocchi assolutamente ininfluenti per la resa generale delle canzoni. Quando siamo entrati in studio da Alessandro Mazzitelli per registrare “Duck in the box” portavamo già live tutte le canzoni da 2 o 3 anni e i nostri amici più cari, che già conoscevano il repertorio, hanno notato tutti che ascoltando le canzoni in concerto, in sala prove, in studio durante la registrazione o sul CD non c’è quasi la minima differenza.
“Duck in the Box” è neonato ed ancora privo di distribuzione. Che idea avete dell’attuale music business? Internet è sempre un aiuto per chi vuole proporre la propria musica?
Di certo registrare le nostre canzoni e “parcheggiarle” su qualche sito tipo iTunes o Amazon avrebbe avuto dei costi molto più contenuti, invece fare una confezione con un booklet tutto fotografico da 12 pagine, come abbiamo fatto noi, ci è costato ben più caro. Costi che sapevamo in partenza di non ammortizzare. Ma noi siamo dei vecchi nostalgici feticisti. Quando sono andato a ritirare le copertine in tipografia, per prima cosa le ho annusate. Trovo che oltre all’ascolto, l’esperienza visiva/olfattiva/tattile che si ha con un disco sia un’eccitazione impagabile. E penso anche che, nonostante il mondo discografico oggi stia soffrendo parecchio, per ogni ragazzino che si scarica la pop-song usa-e-getta sul telefonino, ci sarà sempre un vecchio collezionista nostalgico che si accarezza il suo nuovo acquisto, magari anche in vinile. Il disco come oggetto di culto non morirà mai. A tal proposito ora ti svelo un piccolo segreto: prova a immaginare i primi 3 brani di “Duck in the box” come un lato A: c’è una partenza veloce (“Falling in another dimension”), un lungo brano centrale portante (“My gladness after the sadness”) e un momento più d’atmosfera che poi sfocia in un crescendo finale di facciata (“It will be the end”). E ora fai lo stesso gioco “sognando” gli altri 4 pezzi come un lato B: un’altra apertura di facciata veloce (“God is evil”), un altro brano centrale articolato in vari movimenti (“The race of my life”), di nuovo un momento d’atmosfera (“Antarctica”) e il crescendo finale (“Scream and die”) che chiude l’album in modo molto solenne. Quando progetto una tracklist non riesco a esimermi dal concepirla su due facciate; così ho iniziato a metabolizzare la mia prima musica da ragazzino, sui vinili e le cassette, e ancora oggi non so e non oso fare diversamente.
Che tipo di rapporto avete con la sperimentazione e con le nuove tecnologie in genere?
Scarso rapporto, come ti dicevo prima. La tecnologia è fantastica perché ti consente di sostituire con due tastiere da 5 o 10 kg l’una un Hammond e un Polymoog da diversi quintali (e se i suoni non saranno proprio gli stessi è comunque l’impatto globale che conta), oppure un mixer digitale ultracompatto con dei canali virtuali assegnabili permette di sostituire quei vecchi e scomodi banchi da 32 piste, o ancora l’editing che fai col computer è ben più immediato e di qualità audio superiore di quanto facevi con gli striduli e fruscianti 4 piste a cassette. Ma a parte quello, le idee non te le dà la tecnologia. Quello che hai voglia di dire lo devi sentire dentro, al massimo le tecnologie di oggi ti facilitano un po’ il lavoro più tecnico.
Esiste un artista o un album che mette tutti voi d’accordo?
No! Nemmeno la musica dei Flower Flesh ci mette tutti d’accordo! Ogni volta che finiamo un brano nuovo c’è sempre qualcuno di noi che risentendolo dice: “Mah, io lo avrei fatto diverso!”. Come dicevo prima i nostri gusti sono molto vasti: Bea, il nostro batterista, viene da diversi contesti acustici, dal latin-jazz, ai cantautori, al blues. Ivan (basso) in questo periodo ascolta molto il versante più cupo e “dark” del prog, dai Riverside, ai Tool, ai Porcupine Tree, agli A Perfect Circle. D.E. è una vera “bibbia del Rock” che ascolta di tutto, da Elvis ai Metallica con tutto quello che c’è stato nei 50 anni in mezzo! Marco (chitarra) nasce con l’hard rock più classico, quello dei Deep Purple, dei Queen e degli AC/DC, ma ha sempre ascoltato tantissimo prog-rock (Splinter, Karmakanic, Bigelf e Spock’s Beard tra le sue passioni più recenti) e tantissimo rock-blues. Io amo il prog-rock classico, quello di Genesis e Yes e dei loro “epigoni” degli anni successivi (Marillion, IQ, Pallas), ma anche tante cose di jazz-rock e di Canterbury Sound, tanta new-wave anni ’80 (Japan, Simple Minds, Level 42, Tears for Fears) e anche tanto AOR, cioè quei gruppi melodici americani tipo Styx e Foreigner.
Provate a sognare (con i piedi per terra) e immaginate il vostro futuro nei prossimi tre anni.
Che dire? Nessuno di noi campa di musica, non siamo più degli adolescenti, non rappiamo, non balliamo e non rimiamo “cuore” con “amore”: sognare di vincere il festival di Sanremo o di avere stuoli di ragazzine adoranti che ci lanciano gli slip sul palco sarebbe alquanto patetico. Ci accontenteremmo di trovare una piccola etichetta discografica “di genere” che ci consentisse di distribuire “Duck in the box” tra i veri appassionati in maniera un po’ più capillare di quanto possiamo arrivare a fare noi attraverso le nostre ristrette cerchie di conoscenze. E magari che questa etichetta ci desse anche la possibilità di effettuare qualche bel live in apertura ad artisti che stimiamo, o nel contesto di qualche festival anche fuori dai confini della nostra regione. Qualcosa di più stimolante rispetto alle serate nei pub della Riviera Ligure effettuate finora, dove peraltro diventa sempre più arduo poter proporre qualcosa di personale e che esca dagli schemi del pop di successo attuale. Volendo guardare ancora più lontano, se tra dieci anni, in qualsiasi parte del mondo, in Giappone come in Scandinavia o in Sudamerica, ci fosse anche un solo individuo, uno studente che mentre scende dal bus al ritorno da scuola fischietta una nostra melodia, un impiegato che sale sulla metro canticchiando una nostra canzone, e costui si ritrovasse per un attimo a pensare: “Eh, però… Forti, questi Flower Flesh!”… Ecco, il mio sogno più grande sarebbe realizzato, il mio piccolo personale traguardo sarebbe andato a compimento.
Era luglio, poco più
di tre mesi fa, quando da queste pagine scrivevo diMaelstrom, la “One Man Band” che si identifica inFerdinando Valsecchi, giovane musicista fiorentino,
che realizzavaThe Passage:
Abbastanza anomalo
presentare un nuovo lavoro a distanza così ravvicinata, ma nell’intervista a
seguire appaiono chiare le motivazioni di questa scelta, e Valsecchi fornisce
un nuovo episodio del suo mondo, il cui nome, nell’occasione, èChange of Season.
… spazio in cui è
possibile prendere visione delle liriche… non certo trascurabili.
Quasi un’ora di
musica suddivisa su cinque tracce, con una lungaChange of seasoniniziale, della durata di oltre 27
minuti, servono per affrontare l’argomento “cambiamento”, utilizzando il
susseguirsi delle stagioni come simbolo dei micro cambiamenti - quelli
quotidiani - e di quelli più radicali che riguardano le modifiche di vita.
Il mood cambia
solitamente con una certa velocità, e il trovarsi dinanzi alle porte
dell’autunno, ad esempio, ha un significato ben diverso dal cogliere un tiepido
sole di fine febbraio e accoppiarlo all’idea della speranza.
La musica di
Ferdinando Valsecchi tende a nascondere questo cambio di stato, o almeno il
passaggio tra cielo cupo e orizzonte sereno.
I testi sono
sufficientemente criptici da indurre allo sforzo di riflessione; il cantato è
narrato, e laddove Ferdinando sfocia nella vocalizzazione, non ci sono esigenze
estetiche, ma emerge sempre la funzionalità al progetto e la voce resta uno dei
tanti strumenti disponibili; le immagini propongono tinte scure e anche se in
questa occasione non ho avuto booklet da consultare, la pagina - e quindi le
fotografie - di facebook è stata rivelatrice: https://www.facebook.com/Maelstrompost.
La
visione globale porta ad un mondo pieno di disagio, personale e generale, quel
malessere che è lo specchio del nostro tempo e che tutti, in parti più o meno
significative, stiamo provando. Ferdinando descrive la sua visione, il suo
punto di vista, che potrebbe emergere anche dalla sola musica, perché
fortemente evocativa e di impatto, un rock difficile da codificare, tra
l’elettronico e la new age. Ma non credo esistano etichette per una musica così
originale, fuori dagli schemi, e portatrice di messaggi che, seppur a tratti
angoscianti, rappresentano l'immagine dei nostri giorni.
Talentuoso
Ferdinando Valsecchi… da seguire e incoraggiare…
L’INTERVISTA
"Change of
Season" esce a pochissima distanza da “The Passage”. Come mai questa
scelta? Quali differenze sostanziali esistono tra i due album?
“Change of Season”
esce a così poca distanza per una semplice ragione: in origine li avevo pensati
per una singola release, cosa mi è stata impossibile per vari impegni con altri
progetti e con gli studi che mi toglievano il tempo necessario per poter
preparare a fondo “Change of Season”, pensando a come renderlo migliore. Il
progetto di farli uscire in un'unica release non è tuttavia sfumato in quanto
la versione "fisica" di entrambi sarà disponibile su un unico disco
in un vicino futuro, ed il nome dell'opera complessiva sarà "split".
Split come nome è stato scelto per le due sonorità simili e diverse allo steso
tempo e per le tematiche opposte che affrontano, da una parte un "inno
alla vita" e dell'altra una "solitudine sempre più accentuata".
Le differenze ci sono anche dal punto di vista musicale: mentre The Passage
segna la transitazione da uno stato "claustrofobico" e dissonante (In
a Painted Black World) verso uno spazio più "aperto" (... Until the
Rest of my Life), Change of Season transita all'opposto da uno scenario
movimentato (Summer Breeze) ad uno più pacato e freddo (Waiting for the
Spring). Inoltre mentre l'ascoltatore in The Passage assiste "impotente"
a questa transitazione, in Change of Season è più "libero" di
scegliere il "destino" di colui che parla, in quanto può decidere se
secondo lui "la primavera arriva" (benché coincida con la
solitudine), oppure no... Change of Season è un disco molto più immaginifico di
The Passage, dove se l'ascoltatore vuole può identificarsi meglio con il
personaggio decidendone lui stesso la fine.
Hai già testato il
tuo nuovo lavoro in fase live?
La fase live è un
"work in progress", spero presto saranno disponibili ulteriori
notizie. Ho trovato molta gente interessata sia ad assistere che a partecipare
come musicista per una eventuale trasposizione live del progetto, ora va solo
studiato a fondo.
Il passaggio… le
stagioni che cambiano… spazi temporali che evolvono… è da qui che trai
maggiormente la tua ispirazione?
Questo lavoro è
venuto così mentre veniva creato: già una volta finiti di scrivere gli spartiti
avevo bene in mente lo sviluppo per stagioni, benché la 4° "mancasse"
e si riflettesse in una attesa. Lo sviluppo ulteriore delle sonorità
"stagionali" è invece stato fatto tutto in post-produzione, come
l'idea di introdurre le stagioni con i suoni caratteristici (a parte Waiting
for the Spring ovviamente).
Nella precedente
intervista concludevo chiedendoti che cosa speravi per l’imminente futuro e la
tua risposta era focalizzata sul maggior ascolto possibile della tua musica.
Hai il metro di come sta… cambiando la tua visibilità, intesa come conoscenza
del tuo lavoro?
La visibilità del
progetto Maelstrom è enormemente aumentata, tant'è che a soli due giorni di
distanza ho trovato molti siti internet di download che proponevano il cd
(benché sia messo in free-download anche dal sito ufficiale). Una persona di
nazionalità tedesca si è anche addirittura preso la briga di mettere l'intero
album, compresa la traccia 00 (che comprende tutto il lavoro) su Youtube...
Insomma una grossa sorpresa. Oggi (24-10-2012) a 10 giorni di distanza posso contare
oltre 800 ascolti fra Youtube e Bandcamp, la qual cosa mi rende estremamente
felice e soddisfatto anche perché benché l'opera sia in Italiano venga
apprezzata e pubblicizzata molto all'estero dai fan!